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Partito Comunista Italiano - Wikipedia

Partito Comunista Italiano

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Nota disambigua - Se stai cercando altri significati del termine PCI, vedi PCI.
Simbolo del disciolto Partito Comunista Italiano
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Simbolo del disciolto Partito Comunista Italiano

Il Partito Comunista Italiano (Pci) nacque il 21 gennaio 1921 a Livorno, come Partito Comunista d'Italia (sezione italiana della III Internazionale), dalla scissione della corrente di sinistra del Partito Socialista Italiano, guidata da Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci, che abbandonò la sala del Teatro Goldoni, dove si svolgeva il XVII Congresso socialista, convocando un congresso costitutivo presso il Teatro San Marco. Alle sue prime elezioni nel 1921 elesse 16 deputati per la XXVI legislatura.

Il Partito Comunista d'Italia si poneva come obbiettivo l'abbattere lo Stato borghese, abolire il capitalismo e realizzare il comunismo tramite la Rivoluzione e la dittatura del proletariato, seguendo così l'esempio dei comunisti russi di Lenin. Negli anni successivi, grazie al decisivo impulso dato dalla linea politica e dalle riflessioni di Antonio Gramsci, il Partito mutò la sua linea politica e per questo motivo furono espulsi i dirigenti e gli iscritti di tendenza bordighista (Frazione di Sinistra del Partito Comunista d’Italia), in un primo momento, quelli di tendenza trotzkista, in un secondo. Caduto il regime fascista anche grazie all'apporto dato dai comunisti alla Resistenza italiana, il Partito Comunista Italiano (Pci), che aveva appunto cambiato denominazione dopo lo scioglimento dell'Internazionale comunista avvenuta nel 1943, cominciò ad inseguire una "via italiana", parlamentare, che fu teorizzata nel 1956 da Palmiro Togliatti, segretario del Partito dopo l'arresto di Antonio Gramsci.

Nonostante un graduale e costante distacco operato soprattutto da Enrico Berlinguer, succeduto a Luigi Longo alla guida del Partito, il Partito Comunista Italiano fu a lungo tempo legato all'Unione Sovietica e mantenne relazioni con tutti i partiti comunisti al potere nei paesi del cosiddetto blocco comunista.

Il Partito Comunista Italiano si sciolse il 3 febbraio 1991, quando la maggioranza dei delegati guidati dal segretario Achille Occhetto, che era succeduto tre anni prima ad Alessandro Natta, al XX Congresso Nazionale ne sancì lo scioglimento e la contestuale costituzione del Partito Democratico della Sinistra (PDS). Un'area consistente della minoranza di sinistra si riunì invece nel Movimento per la Rifondazione Comunista, che costituì, con la confluenza di Democrazia Proletaria e di altri gruppi, il Partito della Rifondazione Comunista (PRC) e , successivamente , il PdCI, un partito politico di sinistra che si richiama all'ideologia comunista e che fu fondato l'11 ottobre 1998, in seguito a una divisione interna a Rifondazione Comunista.

L'organizzazione giovanile del Pci fu la Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI).

Indice

[modifica] Storia

[modifica] La costituzione del PCd'I, l'antifascismo e la Liberazione

Per approfondire, vedi la voce Partito Comunista d'Italia.

La scissione dei comunisti dal Partito Socialista Italiano avvenne sui famosi 21 punti di Mosca, che delimitavano in modo netto la differenza delle posizioni politiche dei rivoluzionari da quelle dei riformisti e che costituivano le condizioni per l'ingresso nell'Internazionale Comunista, che aveva come obiettivo principe l'estensione della rivoluzione proletaria su scala mondiale.

Il Congresso socialista aveva appena rifiutato, con solo un quarto di voti contrari, come previsto nelle 21 condizioni per l’adesione all’Internazionale Comunista, di espellere i membri della corrente riformista del Partito. La minoranza, che rappresentava 58.783 iscritti su 216.337, e che abbandonò il Goldoni riunendosi al S.Marco, era costituita dal gruppo “astensionista” che faceva capo ad Amadeo Bordiga, che guidò per primo il nuovo Partito, dal gruppo dell’Ordine Nuovo di Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Umberto Terracini e Angelo Tasca, dalla corrente massimalista di Andrea Marabini e Antonio Graziadei e dalla stragrande maggioranza della Federazione giovanile socialista (Fgs).

Il nuovo Partito era un partito piccolo e settario, la cui linea politica era fondata sulla esclusione di qualsiasi tipo di accordo con i socialisti, e questo provocò, anche a causa della scissione dell’ala riformista del Psi, avvenuta nel 1922, i primi attriti con l’Internazionale comunista, la quale pose con forza il tema della riunificazione con il Psi di Serrati. Nel 1924 Antonio Gramsci, con l'appoggio dell'Internazionale comunista, divenne segretario nazionale e il passaggio della segreteria da Bordiga a Gramsci fu sancito definitivamente nel 1926 con l'approvazione durante il III Congresso nazionale a Lione delle tesi politiche di Antonio Gramsci con oltre il 90% dei voti.

Il P.C.d'I. venne soppresso dal regime fascista il 5 novembre 1926. Il partito venne ricostituito clandestinamente, in parte rimanendo in Italia, dove fu l'unico partito antifascista ad essere presente seppure a livello embrionale, in parte emigrando all'estero verso la Francia e l'URSS. Con l'arresto di Gramsci la guida di fatto passò a Togliatti, che rafforzò ulteriormente i rapporti con l'Unione Sovietica. Questi rapporti si deteriorarono bruscamente nel 1929 a causa della presa di posizione di Tasca, che aveva sostituito Togliatti a Mosca, in favore del leader della destra sovietica Nikolai Bucharin, che si contrapponeva in quel periodo a Stalin. Dopo che tutta la linea del Pci, da Lione in poi, fu messa in discussione, Togliatti espulse Tasca e allineò di nuovo il partito sulle posizioni di Stalin, che erano ritornate a essere piuttosto settarie. Infatti il Pci fu costretto ad associare ai socialisti italiani e al giovane movimento di Giustizia e Libertà, la teoria del socialfascismo, che poneva le sue basi sull’equiparazione tra fascismo e socialdemocrazia, intesi, entrambi, come metodi utilizzati dalla borghesia per conservare il potere.

Con la crescita del pericolo nazista l’Internazionale comunista cambiò strategia e tra il 1934 e il 1935 lanciò la linea di riunire in un fronte popolare tutte le forze che si opponevano all’avanzata dei fascismi. Il Pci, che aveva faticato molto per accettare la svolta del 1929, ebbe una sofferenza ancora maggiore per uscire dal settarismo a cui quella svolta sembrava averlo destinato, in quanto, nell’Italia fascista, i militanti si erano trovati da soli a fronteggiare la dittatura. Ma un po’ per volta il lavoro di Togliatti e di Ruggero Grieco, che resse il partito dal 1934 al 1938, diede i suoi frutti, e, nell’agosto del 1934, fu sottoscritto il patto d’unità d’azione tra socialisti e comunisti, che, nonostante i distinguo, segnò la riapertura del dialogo tra i due partiti operai.

La linea politica del Pci andò di nuovo in crisi con il Patto Ribbentrop-Molotov del 1939 in quanto fu impossibile conciliare l’unità antifascista con l’approvazione del patto fra sovietici e nazisti ed il Pci fu costretto ad appiattirsi sulle posizioni dell’Internazionale che in quel periodo teorizzava per i comunisti l’equidistanza tra i diversi imperialismi. La situazione si aggravò ulteriormente, quando con l’invasione tedesca il Pci si ritrovò in clandestinità anche a Parigi. Togliatti fu arrestato, ma non essendo stato riconosciuto, se la cavò con pochi mesi di carcere e dopo aver riorganizzato un embrione di centro estero del Partito, andò a Mosca dove l’Internazionale, avendo sciolto definitivamente l’Ufficio politico e il Comitato centrale, gli affidò la direzione solitaria del Pci.

La situazione all’interno del Partito si tranquillizzò grazie alla Dichiarazione di Guerra di Benito Mussolini a Francia ed Inghilterra del 1940, che fece si inoltre che si ricreassero le condizioni per una nuova unità antifascista, che fu suggellata nel 1941 a Tolosa da un accordo tra Pci, Psi e Gl. In Italia dal 1941 il Pci, anche grazie all’importante lavoro di Umberto Massola, cominciò a riorganizzare la rete clandestina e a fare sentire la propria voce, anche attraverso la diffusione di un bollettino, il Quaderno del lavoratore, per mezzo del quale venivano diffuse le posizioni ufficiali del Partito, dettate direttamente da Togliatti attraverso Radio Mosca. Nello stesso tempo ripresero forza numerosi piccoli gruppi che, spesso con linea politica autonoma, continuavano dall’interno del paese la loro lotta al fascismo.

Quando, il 25 luglio del 1943, Mussolini fu costretto a dimettersi, l'iniziativa del Partito aumentò sensibilmente sia per i maggiori margini di manovra che per la conseguente uscita dal carcere ed il ritorno dall'esilio di numerosi dirigenti del Pci. Il 15 maggio 1943, il Partito, in seguito allo scioglimento dell'Internazionale Comunista, assunse la denominazione di Partito Comunista Italiano (Pci).

Il peso del Pci in Italia era divenuto molto importante anche perché nel nord Italia la guerra con i tedeschi e con i fascisti della Repubblica di Salò era ancora tutta da combattere e dall’autunno del 1943 i militanti comunisti furono la parte preponderante dei gruppi clandestini della resistenza italiana, organizzati nelle Brigate Garibaldi sulle montagne e nei Gap e nelle Sap nelle città. Oltre alla lotta armata, il Pci continuò il suo lavoro politico continuando nell’organizzazione degli operai e promovendo scioperi ed agitazioni soprattutto nei primi mesi del 1944. La dichiarazione di guerra del Governo Badoglio ai danni della Germania pose il Pci dinnanzi ad un bivio: continuare nella linea, richiesta dalla base, di contrapposizione frontale a Badoglio e alla Monarchia o l’assunzione di responsabilità di governo.

Nel marzo del 1944 Togliatti, dopo aver avuto un incontro con Stalin, tornò in Italia e praticò quella che rimase famosa come la svolta di Salerno con la quale il Pci, anteponendo la ragione di Stato a quella della deposizione della Monarchia, sancì il proprio ingresso nel Governo. L’ingresso del Pci nei Governi formati da Badoglio e dal socialista riformista Ivanoe Bonomi andava letto, nell’intenzione di Togliatti, come il tentativo di accreditarsi come forza responsabile e fondatrice della democrazia italiana.

Per ottenere questo era necessario che il partito fosse ricostruito su basi diverse e diventasse un partito nuovo ovvero un moderno partito di massa con profonde radici nei luoghi di lavoro e aderente alla società. Il Partito cominciò pertanto una crescita costante data sia dal punto di vista dell’organizzazione, che si sviluppò ormai capillarmente in tutte le città italiane, che in termine di numero di iscritti, passati dai 500.000 del 1944 al 1.700.000 del 1945, che lo portarono a diventare il più importante e grande partito comunista dell’Europa occidentale.

[modifica] L'Italia repubblicana e i rapporti con l'URSS

A seguito della Liberazione, Palmiro Togliatti diede vita ad una politica, che molti tacciarono di doppiezza, ma che tenne insieme l'esigenza di consolidamento della democrazia italiana ed il sentimento rivoluzionario ed il mito dell'Urss della base del Partito, concretizzato nell'adesione, fino al suo scioglimento, al Cominform, l'organizzazione dei partiti comunisti filosovietici. Infatti nonostante nel maggio 1947 Alcide De Gasperi avesse formato un governo senza il Pci ed il Psi, il contributo costruttivo dei comunisti nell'Assemblea costituente non mutò al punto che il 1 gennaio 1948 entrò in vigore, dopo essere stata approvata da tutti i maggiori partiti, la Costituzione italiana.

Il Pci si consolidò, dopo la scissione socialista del 1947, come la seconda forza della democrazia italiana dopo la Democrazia cristiana. Da allora e per circa 30 anni il Pci, pur rimanendo sempre all'opposizione, conseguì una crescita elettorale costante che si interruppe solo verso la fine degli anni '70 al termine della stagione della solidarietà nazionale.

D'altro canto il rapporto del Pci con l'Urss è, ancora oggi, al centro del giudizio degli storici. E' certo però che il Partito è stato per un lungo periodo sovvenzionato notevolmente dai sovietici: ex dirigenti del partito hanno spiegato, dopo il dissolvimento dell'Unione Sovietica, in che modo e in quale quantità ricevessero tali sovvenzioni. Diversi libri son stati pubblicati riguardo questi contributi finanziari provenienti dal PCUS, definiti da alcuni l'oro di Mosca, ma gli storici non hanno ancora chiarito quando esattamente iniziarono e finirono tali finanziamenti, importanti per le campagne elettorali e, secondo certe fonti bibliografiche, per mantenere un apparato paramilitare. Sempre dopo la fine del regime comunista sovietico, la magistratura russa inviò in Italia investigatori che con l'aiuto di alcuni magistrati italiani cercarono di chiarire la modalità e la entità di questi finanziamenti: fu fatta parzialmente luce su certe situazioni ma ancora non si sa esattamente la entità totale dei finanziamenti. Oltre ovviamente l'attività politica, significativa testimonianza di legame e dipendenza dai sovietici era la pubblicazione periodica di una rivista della UISP, ossia l'associazione sportiva del Pci, che tuttora esiste e che all'epoca era marcatamente filosovietica.

Negli anni successivi, pur continuando ad appoggiare l'Urss anche nella drammatica crisi d'Ungheria durante la rivoluzione ungherese del 1956, il Pci di Togliatti diede inizio a una nuova politica di partito nazionale imboccando la via italiana al socialismo, dopo che personaggi significativi avevano abbandonato il partito protestando contro l'adesione del Pci alla repressione sovietica. Tra coloro che, in quella situazione, manifestarono una posizione di dissenso, pur senza abbandonare il Partito, va ricordato il leader della Cgil Giuseppe Di Vittorio. La principale conseguenza politica degli avvenimenti del 1956 fu il definitivo tramonto del Patto d’unità d’azione tra il Pci e il Psi. Il Psi di Pietro Nenni, che negli anni precedenti aveva profondamente subito il fascino dell’Unione Sovietica di Stalin , ripensò, prendendone completamente le distanze, la sua posizione riguardo al più importante Stato socialista e diede avvio al suo percorso di avvicinamento alla Dc.

Con la fine del centrismo e con l'inizio dei governi di centro-sinistra il Pci di Togliatti non mutò la sua posizione di opposizione al governo. Il 21 agosto del 1964 morì a Yalta Palmiro Togliatti. I suoi funerali, che videro la partecipazione di oltre un milione di persone, costituirono il più imponente momento di partecipazione popolare che la giovane Repubblica italiana aveva conosciuto fino a quel momento. L’ultimo documento di Togliatti, che ne costituiva il testamento politico e che fu ricordato come il memoriale di Yalta, ribadiva l'originalità e la diversità di vie che avrebbero consentito la costruzione di società socialiste, “unità nella diversità” del movimento comunista internazionale. Il Pci lasciato da Togliatti era un Partito che, pur continuando a rimanere ancorato al “centralismo democratico”, cominciava a sentire l’esigenza di rendere visibili quelle che, al suo interno, erano le diverse sensibilità e opzioni politiche. Il primo Congresso dopo la morte di Togliatti, l’XI svoltosi nel gennaio del 1966, fu il teatro del primo scontro svoltosi “alla luce del sole” dalla nascita del Partito nuovo. Le due linee politiche che si fronteggiarono furono quella di “destra” di Giorgio Amendola e quella di “sinistra” di Pietro Ingrao. Amendola, sebbene da solo non avesse la maggioranza assoluta, mandò Ingrao in minoranza. Il voto contrario di Ingrao, per l’autorevolezza dell’esponente comunista che godeva di numerosi consensi sia all’interno che all’esterno del Partito, sancì, per la prima volta, la legittimità al dissenso politico. Il lavoro di sintesi, rivolto al “rinnovamento nella continuità”, tra le diverse anime del Partito suggellò la leadership di Luigi Longo, eletto Segretario generale dopo la morte di Togliatti e degno continuatore delle politiche del defunto leader. Nel ruolo di successore di Togliatti i due candidati più forti erano proprio Amendola ed Ingrao, ma Longo, per le garanzie di unità e continuità che dava la sua figura, che aveva ricoperto con Togliatti la carica di vicesegretario e aveva sempre con lealtà ed efficacia coadiuvato il Segretario, costituiva la soluzione migliore per la segreteria del Partito.

Longo continuò nella definizione di una politica nazionale del Pci ed infatti a differenza del 1956, nel 1968, il partito si schierò contro l'invasione sovietica della Cecoslovacchia.

Nel 1972 divenne segretario Enrico Berlinguer, che, sulla suggestione della crisi cilena, propose un compromesso storico tra comunisti e cattolici democratici, che avrebbe dovuto spostare a sinistra l'asse governativo, trovando qualche sponda nella corrente democristiana vicina ad Aldo Moro.

I rapporti con l'Unione Sovietica si allentarono ulteriormente quando, a opera dello stesso Berlinguer, iniziò la linea euro-comunista che cercò una qualche indipendenza dai sovietici. L'Eurocomunismo però durò poco a causa del riallineamento del Partito Comunista Francese all'URSS, il calo del peso elettorale dei comunisti spagnoli e l'acutizzarsi delle differenze interne nello stesso Pci: ma le differenze tra il Pci e il Pcus erano ormai moltissime. In seguito, nel 1981, Berlinguer giunse a dichiarare conclusa la spinta propulsiva della Rivoluzione d'ottobre.

[modifica] La solidarietà nazionale

Nella seconda metà degli anni Settanta si acuirono le tensioni sociali e politiche. La crisi economica-energetica, la disoccupazione, gli scioperi, il terrorismo conversero verso quello che molti hanno definito l'annus horribilis delle rivolte: il 1977: echi sessantottini vibravano di nuovo fra gli studenti, riverberi della lotta di classe animavano il "confronto", cioè il conflitto, fra i sindacati e le imprese, e molti da molte classi sociali si rivoltavano in armi contro avversari politici ed istituzioni.

Anche il Pci contestò sempre più fortemente la pregiudiziale che impediva al suo partito di accostarsi alla gestione del Paese. L'iniziativa fu lasciata a Giorgio Amendola, rappresentante prestigioso (anche per tradizione familiare) dell'ala moderata del partito e uomo capace di dialogare con i non comunisti, che proclamò che l'ora era suonata per "far parte a pieno titolo del governo". Nel febbraio del 1977 fu Ugo La Malfa a dichiarare per primo, pubblicamente, la necessità di un governo di emergenza comprendente i comunisti, ma la proposta fallì per il dissenso democristiano e socialdemocratico.

Il 1978 fu l'anno del destino, per il Pci. Iniziò presto, con un incontro subito dopo Capodanno, fra Berlinguer e Bettino Craxi, al termine del quale fu rilasciata una nota indicativa di ufficiale "identità di vedute", espressione tradotta dagli analisti come una sorta di "via libera" (o di "non nocet") del Psi alle manovre del segretario comunista. Delle quali, già cominciate da molti mesi, si poteva ora parlare anche pubblicamente. Dopo una paziente opera di ricerca di possibili strategie di accesso pur parziale al governo, Berlinguer pareva aver individuato in Aldo Moro l'interlocutore più adatto alla costruzione di un progetto concreto.

Aldo Moro era il presidente della Dc, e condivideva con il segretario del Pci Enrico Berlinguer alcune caratteristiche personali che sembravano predisporre al dialogo: erano entrambi sottili intellettuali, lungimiranti politici ed abili nonché pazienti strateghi. Fu Moro a parlare per primo di possibili "convergenze parallele", sebbene non propriamente in relazione ai desiderata del politico sardo, ma fu lo stesso Moro a mobilitare l'apparato democristiano per verificare la possibilità di convertire ad utile accordo la sterile distanza che sino ad allora aveva diviso Dc e Pci.

Dai clandestini iniziali contatti, sinché possibile per interposta persona, si passò in seguito ad una minima frequentazione diretta nella quale andava assumendo forma e contenuti il progetto del compromesso storico. Moro individuava nell'alleanza col Pci lo strumento che avrebbe consentito di superare il momento di gravissima crisi istituzionale e di credibilità dello stesso apparato democratico repubblicano (screditato anche dalle campagne comuniste sulla questione morale), coinvolgendo l'opposizione nel governo e dunque assicurando il minimo necessario di consenso perché il Paese potesse sopravvivere a sé stesso in simili ambasce.

Nella Dc, Berlinguer vedeva invece primariamente (ma non solo semplicemente) quel possibile cavallo di Troia grazie al quale avrebbe potuto portare finalmente il suo partito alla responsabilità di governo. Entrambi, è stato sostenuto, potevano aver condiviso il timore che la crisi in cui versava il Paese potesse dar adito a soluzioni di tipo cileno, come già anni prima paventato dallo stesso Berlinguer. Il compromesso storico, in quest'ottica, poteva porre il paese al riparo da eventuali azioni dell'uno e dell'altro fronte.

Ad ogni buon conto, Berlinguer fu intanto ammesso, primo comunista italiano, a lavori para-governativi, come le riunioni dei segretari dei partiti della maggioranza, in qualità di esterno interessato.

Mentre Moro veniva definitivamente prosciolto dagli addebiti giudiziari in relazione allo scandalo Lockheed, che lo aveva infastidito sin da quando aveva cominciato a guardare ad una possibile intesa coi comunisti, si preparava nel marzo del 1978 il governo Andreotti, cui il Pci avrebbe dovuto fornire appoggio esterno (avrebbe cioè dovuto garantire astensione o favore, ma non opposizione), in attesa di una fase successiva nella quale ammetterlo definitivamente ed a pieno titolo nelle coalizioni.

Nasceva, questo governo, con alcuni membri assolutamente sgraditi al Pci, come Antonio Bisaglia e Gaetano Stammati, la cui inclusione nella compagine ministeriale era stata operata da Andreotti giusto la notte precedente la presentazione alle Camere; insieme con Alessandro Natta, capogruppo alla Camera, Berlinguer dovette perciò sveltamente decidere di ritirare l'appoggio al governo, rinunciando alla partecipazione del Pci alla maggioranza. La stessa mattina del 16 marzo, giorno previsto per la presentazione parlamentare del governo tanto faticosamente messo insieme, e ad accordi appena infranti, Moro fu rapito (e sarebbe poi stato ucciso) dalle Brigate Rosse. Berlinguer intuì immediatamente la "calcolata determinazione" di un attacco che pareva studiato per mandare a monte tutto il lavoro occorso per raggiungere la solidarietà nazionale e propose di concedere a questo pur non accetto governo la fiducia nel più breve tempo possibile, per potergli assicurare pienezza di funzioni in un momento cruciale della democrazia italiana.

La fiducia fu dunque votata e il Pci si astenne nella votazione, ma non senza che Berlinguer precisasse che l'espediente di Andreotti, che suonava di repentina modifica unilaterale di accordi lungamente elaborati, era stato soltanto "superato dagli eventi", la questione non era in realtà affatto chiusa, solo rinviata.

[modifica] Il ritorno all'opposizione

Se Moro non fosse stato rapito, il Pci avrebbe dato battaglia ad Andreotti, ma "sia pure faticosamente e in modo non pienamente adeguato alla situazione", gli fu risparmiato. Durante il sequestro Moro, il Pci fu tra i più decisi sostenitori del cosiddetto "fronte della fermezza", del tutto contrario a qualsiasi tipo di trattativa con i terroristi, i quali avevano chiesto la liberazione di alcuni detenuti in cambio di quella dello statista.

Dopo il tragico epilogo della vicenda di Moro, l'unico effetto di rilievo sulla Dc parvero le dimissioni di Francesco Cossiga, che era ministro dell'interno. Il Pci restava fuori della maggioranza, Berlinguer non partecipava più alle riunioni a 6, insieme ai segretari del "pentapartito", il governo Andreotti restava dov'era, sempre con Bisaglia e Stammati a bordo.

Fu nel giugno del 1978, un mese dopo la morte di Moro, che esplose con inaudita virulenza il caso del presidente della Repubblica Giovanni Leone, che grazie ad una campagna cui il Pci aveva già dato un contributo fondamentale (e che a questo punto omise di ritirare), fu costretto alle dimissioni. Oltre al rancore verso Andreotti, cui si doveva un governo diverso da quello concordato (e che avrebbe dovuto presentare dimissioni almeno di cortesia, in caso di elezione di un nuovo capo dello stato), si è supposto che la campagna scandalistica sia stata ulteriormente indurita da Berlinguer per poter far salire al Quirinale qualcuno meno avvinto dalla pregiudiziale anticomunista di quanto non fossero stati i presidenti precedenti.

L'elezione di Sandro Pertini, oltre che gradita al Pci, piaceva a molti settori della politica. Da parte dei socialisti, nel cui partito militava, vi era ovviamente la soddisfazione per la nomina di una figura amica, che avrebbe potuto accrescere la capacità di influenza del partito craxiano. Da parte democristiana (dalla quale si era barattata la candidatura con la persistenza al governo), Pertini era ritenuto poco pericoloso, almeno fintantoché fossero proseguiti i buoni rapporti con il Garofano. Ed anche i post-risorgimentali repubblicani, guardavano a possibili riprese di prestigio (e di influenza politica) con un nuovo scenario che premiava con la carica uno degli storici partiti italiani.

L'entusiasmo di Berlinguer fu però di breve durata, poiché non solo Andreotti non si dimise, ma addirittura successe a sé stesso, con l'Andreotti quinquies, sul principio dell'anno successivo. Il Pci fu quindi escluso dalle relazioni fra i partiti della maggioranza, e si apprestò a tornare al suo ruolo di opposizione.

Il Pci si ritrovò di nuovo all’opposizione e soprattutto completamente isolato in quanto il Psi di Bettino Craxi dopo avere a lungo oscillato, governando a livello locale sia con la Dc che con il Pci, formulò stabilmente, a livello nazionale, un’alleanza di governo con la Dc e con gli altri partiti laici, denominata pentapartito, facendo pesare sempre di più, nelle richieste di posti di potere, il suo ruolo di partito di confine.

Berlinguer, per uscire dall'isolamento, provò a ricostruire delle alleanze nella base del Paese, cercando convergenze con le nuove forze sociali che chiedevano il rinnovamento della società italiana e riprendendo i rapporti con quello che era il tradizionale riferimento sociale del Pci: la classe operaia. In quest’ottica vanno lette le battaglie contro l’installazione degli Euromissili, per la pace e, soprattutto, nella vertenza degli operai della Fiat del 1980. Il Pci in quella lotta arrivò addirittura a scavalcare il ruolo della Cgil e la sconfitta finale e quella riportata anni dopo nel referendum, che era stato fortemente voluto da Berlinguer, per difendere la scala mobile cancellata da Craxi, segnarono in maniera indelebile il Partito.

Dopo la morte di Berlinguer la segreteria passò ad Alessandro Natta, ma il partito, pur avendo ottenuto per la prima volta la maggioranza relativa nelle elezioni europee del 1984 e pur mantenendo una consistente base di massa, aveva ormai iniziato un lento e graduale declino. Nell’aprile del 1986 fu tenuto, anticipatamente a causa della disfatta dell’anno precedente nelle elezioni regionali, il XVII Congresso nazionale del Pci. Come risposta alla crisi il gruppo dirigente del Partito tentò, grazie alla decisiva spinta dell’area “migliorista” di Giorgio Napolitano, un riposizionamento internazionale del Pci proponendo il totale distacco dal movimento comunista per essere, a tutti gli effetti, parte del Partito socialista europeo. A questa linea si oppose duramente un piccolo gruppo organizzato da Cossutta che, in minoranza all’interno del Partito, aveva dato vita ad una vera e propria corrente organizzata.

[modifica] La Caduta del Muro e lo scioglimento del Pci

Il 12 novembre 1989, tre giorni dopo la caduta del muro di Berlino, il nuovo segretario Achille Occhetto, succeduto da poco più di un anno ad Alessandro Natta, annunciò a Bologna in una riunione di ex partigiani e militanti comunisti della sezione Bolognina (da cui la cosiddetta Svolta della Bolognina) “grandi cambiamenti”. Il leader del Partito propose, prendendo da solo la decisione, di andare ad una vera e propria “svolta” che preludeva al superamento del Pci e alla nascita di un nuovo partito.

Nel Partito si accese una discussione ed il dissenso, per la prima volta, fu notevole e coinvolse ampi settori della base. Dirigenti nazionali di primaria importanza quali Pietro Ingrao, Alessandro Natta ed Aldo Tortorella, oltre che Armando Cossutta, si opposero in maniera convinta alla svolta.

Per decidere sulla proposta di Occhetto fu indetto un Congresso straordinario del Partito, il XIX, che si tenne a Bologna nel marzo del 1990. Tre furono le mozioni che si contrapposero:

  • la prima mozione, intitolata “Dare vita alla fase costituente di una nuova formazione politica” era quella di Occhetto, che proponeva la costruzione di una nuova formazione politica democratica, riformatrice ed aperta a componenti laiche e cattoliche, che superasse il centralismo democratico. Il 67% dei consensi ottenuti dalla mozione permise la rielezione di Occhetto alla carica di Segretario generale e la conferma della sua linea politica.
  • la seconda mozione, intitolata “Per un vero rinnovamento del PCI e della sinistra” fu sottoscritta da Ingrao e, tra gli altri, da Angius, Castellina, Chiarante e Tortorella. Il Pci, secondo i sostenitori di questa mozione, doveva si rinnovarsi, nella politica e nella organizzazione, ma senza smarrire se stesso. Questa mozione uscì sconfitta ottenendo il 30% dei consensi.
  • la terza mozione, intitolata “Per una democrazia socialista in Europa” fu presentata dal gruppo di Cossutta. Costruita su un impianto profondamente ortodosso ottenne solo il 3% dei consensi.

Il XX Congresso, tenutosi a Rimini nel febbraio del 1991, fu l’ultimo del Pci. Le mozioni che si contrapposero a questo Congresso furono sempre tre, la prima, che ottenne una larga maggioranza, di Occhetto, D’Alema e molti altri dirigenti, favorevole al nuovo Partito, una mozione intermedia, capeggiata da Bassolino, e una terza contraria, nata dall’accorpamento delle mozioni di Ingrao e Cossutta presentate al precedente Congresso. Il 3 febbraio 1991, a conclusione del congresso, il Pci deliberò il proprio scioglimento, promovendo la costituzione del Partito Democratico della Sinistra (PDS). Un'area consistente della componente di sinistra non aderì alla nuova formazione e insieme ad altre formazioni della sinistra italiana (ad esempio Democrazia Proletaria) diede vita al Movimento per la Rifondazione Comunista, che poi assunse la denominazione di Partito della Rifondazione Comunista (PRC).

[modifica] Risultati elettorali

Il Partito Comunista Italiano fu un caso straordinario nella politica europea. Dagli anni cinquanta fino alla fine ha ottenuto una percentuale di voti tale da configurarlo come il più grande partito comunista d'Europa ed eternamente seconda forza politica italiana, ruolo che in Europa spetta di solito ai partiti socialisti.

Il suo massimo storico si ebbe nel 1976 (34,4%). Nel 1984, sull'onda emotiva per la morte di Enrico Berlinguer, il Pci operò il primo, e unico, storico sorpasso sulla Democrazia cristiana alle Elezioni europee, diventando il primo partito italiano con il 33,33% contro il 32,97% della Dc. In diverse occasioni, in particolare nel periodo della collaborazione a sinistra tra Pci e PSI (1975-1985), varie importanti città, specie quelle a vocazione industriale, furono amministrate da sindaci del Pci (Roma, Firenze, Genova, Torino, Napoli), oltre a Bologna che ebbe ininterrottamente sindaci comunisti dal 1946 al 1991.

– Partito Comunista Italiano alle Elezioni Politiche
Elezione Parlamento Voti % Seggi
1946


1948


1953


1958


1963


1968


1972


1976


1979


1983


1987
Costituente

Camera
Senato

Camera
Senato

Camera
Senato

Camera
Senato

Camera
Senato

Camera
Senato

Camera
Senato

Camera
Senato

Camera
Senato

Camera
Senato
4.356.686

8.136.637°
6.969.122°

6.121.922
4.912.093

6.704.706
5.701.019

7.768.228
6.977.197

8.556.751
8.583.285^

9.072.454
8.475.141^

12.620.750
10.640.471

11.135.772
9.859.044

11.028.158
9.579.699

10.250.644
9.181.579
18,9

31
30,8

22,6
20,6

22,7
21,8

25,3
25,2

26,9
30

27,1
28,1

34,4
34,2

30,4
31,4

29,9
30,8

26,6
28,3
104

187
72

148
54

149
59

175
85

177
101

188
94

227
116

201
109

198
107

177
101


°con il Psi come Fronte Democratico Popolare per la Libertà, la Pace, il Lavoro
^con il Psiup


– Partito Comunista Italiano alle Elezioni Europee
Elezione Parlamento Voti % Seggi
1979

1984

1989
Parl. Europeo

Parl. Europeo

Parl. Europeo
10.345.284

11.696.923

9.602.618
29,6

33,3

27,6
24

27

22

[modifica] Primo Comitato Centrale (I Congresso - Livorno 1921)

[modifica] Segretari

Suoi segretari sono stati, in ordine cronologico:

[modifica] Congressi

  • I Congresso - Livorno, 21 gennaio 1921
  • II Congresso - Roma, 20-24 marzo 1922
  • III Congresso - Lione, 20-26 gennaio 1926 [in esilio]
  • IV Congresso - Colonia, 14-21 aprile 1931 [in esilio]
  • V Congresso - Roma, 29 dicembre 1945 - 6 gennaio 1946
  • VI Congresso - Milano, 4-10 gennaio 1948
  • VII Congresso - Roma, 3-8 aprile 1951
  • VIII Congresso - Roma, 8-14 dicembre 1956
  • IX Congresso - Roma, 30 gennaio - 4 febbraio 1960
  • X Congresso - Roma, 2-8 dicembre 1962
  • XI Congresso - Roma, 25-31 gennaio 1966
  • XII Congresso - Bologna, 8-15 febbraio 1969
  • XIII Congresso - Milano, 13-17 marzo 1972
  • XIV Congresso - Roma, 18-23 marzo 1975
  • XV Congresso - Roma, 30 marzo - 3 aprile 1979
  • XVI Congresso - Milano, 2-6 marzo 1983
  • XVII Congresso - Firenze, 9-13 aprile 1986
  • XVIII Congresso - Roma, 18-22 marzo 1989
  • XIX Congresso - Bologna, 7-11 marzo 1990
  • XX Congresso - Rimini, 31 gennaio - 3 febbraio 1991

[modifica] Iscritti

  • 1945 - 1.770.896
  • 1946 - 2.068.272
  • 1947 - 2.252.446
  • 1948 - 2.115.232
  • 1949 - 2.027.271
  • 1950 - 2.112.593
  • 1951 - 2.097.830
  • 1952 - 2.093.540
  • 1953 - 2.134.285
  • 1954 - 2.145.317
  • 1955 - 2.090.006
  • 1956 - 2.035.353
  • 1957 - 1.825.342
  • 1958 - 1.818.606
  • 1959 - 1.789.269
  • 1960 - 1.792.974
  • 1961 - 1.728.620
  • 1962 - 1.630.550
  • 1963 - 1.615.571
  • 1964 - 1.641.214
  • 1965 - 1.615.296
  • 1966 - 1.575.935
  • 1967 - 1.534.705
  • 1968 - 1.502.862
  • 1969 - 1.503.816
  • 1970 - 1.507.047
  • 1971 - 1.521.642
  • 1972 - 1.584.659
  • 1973 - 1.623.082
  • 1974 - 1.657.825
  • 1975 - 1.730.453
  • 1976 - 1.814.262
  • 1977 - 1.814.154
  • 1978 - 1.790.450
  • 1979 - 1.761.297
  • 1980 - 1.751.323
  • 1981 - 1.714.052
  • 1982 - 1.673.751
  • 1983 - 1.635.264
  • 1984 - 1.619.940
  • 1985 - 1.595.281
  • 1986 - 1.551.576
  • 1987 - 1.508.140
  • 1988 - 1.462.281
  • 1989 - 1.421.230
  • 1990 - 1.264.790

[modifica] Tendenze e correnti interne

Fin dall'inizio il Pci non ha mai avuto componenti interne organizzate e riconosciute, ma piuttosto delle tendenze più o meno individuabili (inizialmente, quelle di Amendola e di Ingrao). Le correnti si sono però via via caratterizzate, fino a divenire più individuabili negli anni '80.

  • Berlingueriani: Costituivano il centro del partito, erede delle posizioni di Luigi Longo. Quest'area, formata da ex-amendoliani ed ex-ingraiani, divenne più inquadrabile durante la segreteria di Berlinguer (che la guidava). Anch'essa diffidente nei confronti della Nuova sinistra (seppur meno dei miglioristi), era favorevole al distacco dalla sfera d'influenza dell'URSS per conseguire una via italiana al socialismo, alternativa a stalinismo e socialdemocrazia. Negli anni ottanta i berlingueriani, dopo il fallimento del compromesso storico con la DC, tentarono un' alternativa democratica da perseguire moralizzando il sistema partitico (questione morale), sviluppando al contempo una forte avversione al PSI di Craxi. Il centro del Pci si divise poi nell'ultimo congresso del 1989 tra favorevoli e contrari alla Svolta di Occhetto (mozioni 1 e 2), anche se poi in stragrande maggioranza confluì nel PDS. Berlingueriani erano, oltre a Natta e Occhetto (proveniente dalla sinistra), Gavino Angius, Tom Benetollo, Giovanni Berlinguer, Giuseppe Chiarante, Pio La Torre, Adalberto Minucci, Fabio Mussi, Diego Novelli, Ugo Pecchioli, Alfredo Reichlin, Franco Rodano, Tonino Tatò, Aldo Tortorella, Renato Zangheri e altri; provenienti dalla FGCI erano Massimo D'Alema, Piero Fassino, Pietro Folena, Renzo Imbeni, Walter Veltroni. Oggi sono quasi tutti nei DS; solo Minucci e Nicola Tranfaglia ne sono usciti per aderire al Partito dei Comunisti Italiani (PdCI), mentre Folena è passato alla maggioranza di Rifondazione. Alcuni sono usciti dalla politica attiva (prima Natta, poi Tortorella e Chiarante che hanno costituito l'Associazione per il Rinnovamento della Sinistra).
  • Ingraiani: Guidati da Pietro Ingrao, tenace avversario di Giorgio Amendola nel partito, erano per definizione gli esponenti della sinistra movimentista del Pci, molto ben radicati nella FGCI e anche nella CGIL. Questa corrente era contraria a manovre politiche considerate "di destra" e sosteneva posizioni che erano definite - non sempre in modo coerente - 'marxiste-leniniste'. Era poco avvezza ad alleanze con la DC (per questo motivo molti furono gli ex-ingraiani passati con Berlinguer). Molto meno diffidente di berlingueriani e miglioristi nei confronti dei movimenti del dopo '68, riuscì ad attrarre svariati giovani proprio tra questi ultimi, spesso contrapponendoli a quelli più "ortodossi" che militavano in Democrazia Proletaria o in altre formazioni di estrema sinistra. Nel 1969 la corrente perse la componente critica legata alla rivista Il manifesto, espulsa - anche con l'appoggio di Ingrao - dal partito e poi rientratavi nell '84. I valori principali degli ingraiani erano quelli dell'ambientalismo, del femminismo, del pacifismo. Si opposero in larga parte alla Svolta della Bolognina, costituendo il nucleo principale del 'Fronte del No', cioè la mozione di minoranza più consistente (la 2). Ingraiani erano Alberto Asor Rosa, Antonio Baldassarre, Antonio Bassolino, Fausto Bertinotti, Bianca Bracci Torsi, Lucio Colletti, Aniello Coppola, Sandro Curzi, Lucio Libertini, Bruno Ferrero, Sergio Garavini, Ersilia Salvato, Rino Serri e altri; dalla FGCI provenivano Ferdinando Adornato, Massimo Brutti, Franco Giordano, Nichi Vendola. Di origine ingraiana erano, oltre agli ex-Manifesto-PdUP, anche berlingueriani come Angius, D'Alema, Fassino, Occhetto, Reichlin e altri. Oggi gli ex-ingraiani sono divisi tra i DS e la maggioranza del PRC.
  • Cossuttiani: Altra corrente di sinistra, presente perlopiù nell'apparato partitico ed estranea ai movimenti studenteschi, comprensiva però di alcuni ex-operaisti. I comunisti guidati da Cossutta godevano nel Pci dell'appoggio da parte dell'Unione Sovietica, che appoggiavano in ogni caso (specialmente in fatto di politica estera). Erano inoltre supporter di quasi tutti gli altri socialismi reali (come quello cubano). Nel partito, giunsero a criticare con asprezza l'azione politica intrapresa da Berlinguer durante la sua segreteria, combattendo al contempo sia contro l'allontanamento progressivo dall'URSS che i tentativi di compromesso con la DC. Nel congresso della 'svolta' riuscirono a conquistare il 3% dei voti, con una mozione (la 3) più organizzata e meno eterogenea della 2. Cossuttiani erano Guido Cappelloni, Gian Mario Cazzaniga, Giulietto Chiesa, Aurelio Crippa, Oliviero Diliberto, Claudio Grassi, Marco Rizzo, Fausto Sorini. Attualmente i cossuttiani (tranne Chiesa che ha seguito un diverso percorso politico-culturale) sono presenti in larga parte nel PdCI (che Cossutta presiede) ma anche in una consistente minoranza del PRC ("L'Ernesto" di Grassi, Cappelloni e Sorini).
  • Il Manifesto: Componente di origine ingraiana nata attorno alla rivista omonima. Esponenti più significati e fondatori poi del quotidiano avente il medesimo nome furono Aldo Natoli, Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Lucio Magri, Luciana Castellina, Eliseo Milani, Valentino Parlato e Lidia Menapace. . La sua dura critica alla politica dell'URSS (culminata con la condanna nel 1969 all'invasione sovietica della Cecoslovacchia) le costò la radiazione del Pci. Costituitasi come soggetto politico autonomo di Nuova sinistra, nel 1974 si unificò con il PdUP (costituito da socialisti provenienti da PSIUP e aclisti del MPL) per fondare il PdUP per il comunismo, con Magri segretario. L'unione durò poco: nel '77 l'area PSIUP-MPL uscì per confluire in Democrazia Proletaria, mentre gli ex-Manifesto inglobarono la minoranza di Avanguardia Operaia (per poco tempo) e infine il Movimento Lavoratori per il Socialismo (MLS), mantenendo il nome PdUP per il comunismo. Nel 1983 il partito presentò propri candidati nelle liste comuniste; nel 1984 confluì definitivamente nel Pci, con gli ex-militanti del MLS. Quando si tenne il congresso alla Bolognina, la maggior parte degli ex-PdUP aderirono al 'Fronte del No'. Magri e altri rimasero nel PDS per breve tempo, dopodiché aderirono a Rifondazione nel 1991. Nel 1995 lasciarono però il PRC con Garavini, dando vita al Movimento dei Comunisti Unitari che, tranne Magri e Castellina, confluì nei DS nel 1998. Oggi dirigenti ed esponenti del PdUP-MLS si ritrovano, con ruoli diversi in tutti i partiti della Sinistra. Famiano Crucianelli, Vincenzo Vita, Franco Grillini, Luciano Pettinari e Davide Ferrari sono nella sinistra interna dei DS. Del MLS, Luca Cafiero ha lasciato la politica attiva, Alfonso Gianni e Ramon Mantovani sono in Rifondazione. I fondatori veri e propri del Manifesto sono oggi fuori dalle organizzazioni di partito.

[modifica] Giornali e riviste

[modifica] Bibliografia

  • Paolo Spriano: Storia del Partito Comunista Italiano - Einaudi, Torino, 1967-1975 - 5 volumi
  • Aldo Agosti: Storia del Partito comunista italiano 1921-1991. Roma-Bari: Laterza, 1999
  • Giorgio Galli: Storia del Pci. Milano: Kaos edizioni, 1993
  • Luciano Barca: Cronache dall'interno del vertice del Pci. Rubbettino editore, 2005

[modifica] Voci correlate

[modifica] Collegamenti esterni

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