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Guerre jugoslave

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Con guerre jugoslave si indica una serie di conflitti armati che hanno coinvolto diversi territori appartenenti alla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia tra il 1991 e il 1995, causandone la dissoluzione.

Diverse sono le motivazioni che stanno alla base di questi conflitti: sicuramente la più importante è il nazionalismo imperante nelle diverse repubbliche a cavallo fra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta (in particolare in Serbia e Croazia, ma in misura minore anche in Slovenia e nelle altre regioni della Federazione).

Tuttavia non vanno dimenticate anche pesanti motivazioni economiche, interessi e ambizioni personali dei leader politici coinvolti e la contrapposizione spesso frontale fra le popolazione delle fasce urbane e le genti delle aree rurali e montane.

Indice

[modifica] La Jugoslavia degli anni Ottanta

[modifica] L'eredità di Tito (1980-1986)

Le sei Repubbliche e le due Province Autonome della Jugoslavia (1945-1991)
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Le sei Repubbliche e le due Province Autonome della Jugoslavia (1945-1991)

Dopo la morte di Tito (1980) la Jugoslavia visse un periodo (1980 - 1986) di relativa serenità. Sembrava che il sistema costruito e rivisto nei decenni da Tito riuscisse a funzionare, nonostante la progressiva scomparsa di tutti i protagonisti della Resistenza e della politica titoista (nel 1983 morì anche Aleksandar Leka Ranković, figura storica di ex ministro e capo dei servizi segreti).

Tito era riuscito a bilanciare le rappresentanze etniche e a placare antichi odi in un equilibrio che appariva stabile, grazie probabilmente anche al "cemento" dell'ideologia socialista rinnovata in chiave antistalinista e per alcuni versi filo-occidentale. La Jugoslavia socialista e federale, così come costruita da Broz e da Edvard Kardelj, il teorico e costituzionalista sloveno, si basava sulla politica della Fratellanza e Unità (Bratsvo i Jedinstvo) fra i diversi popoli jugoslavi, garantendo a ciascuno, comprese le minoranze nazionali, dignità, autonomia decisionale e rappresentatività istituzionale. Tuttavia il regime jugoslavo aveva utilizzato anche la forza per stroncare quei movimenti, come la Primavera Croata del 1971, che avevano dimostrato l'emergere del nazionalismo etnico, nonché di essere un pericolo per l'unità della Federazione, il ruolo centrale della Lega dei Comunisti Jugoslavi e il sistema economico dell'autogestione e del "socialismo di mercato".

Un contributo al successo dell'operazione di Tito era certamente venuto dagli aiuti anche economici provenienti da Occidente e volti a tenere staccata la Jugoslavia dalla sfera di influenza sovietica, e a farne, anche grazie alla personalità del presidente jugoslavo, il Paese-guida del Movimento dei Non-Allineati.

Nel 1983 il primo ministro, la croata Milka Plancić, varò un grande piano di stabilizzazione, sottoposto al controllo tecnico del fondo monetario internazionale, con l'ambizioso obiettivo di ridurre l'inflazione, creare posti di lavoro, diminuire la dipendenza dalle importazioni e contenere il debito pubblico. Si trattava insomma di rilanciare l'economia, anche se con misure decisamente pesanti per un paese che si definiva socialista. L'economia, ingolfata dopo la straordinaria crescita degli anni settanta [1], era una delle principali cause di scontro fra le diverse repubbliche. Comunque la situazione non sembrava certo drammatica: il Paese godeva di un certo prestigio internazionale e nel 1984 Sarajevo ospitò anche la XIV Olimpiade Invernale [2].

[modifica] Destabilizzazione del Paese (1987-1989)

La crisi del sistema si fece evidente nel 1987. Nell'estate di quest'anno scoppiò lo scandalo finanziario e politico dell'Agrokomerc, la più grande azienda bosniaca, che delineò una sorta di tangentopoli jugoslava.

Sulla scena politica serba si era messo nel frattempo in luce Slobodan Milošević, divenuto presidente della Repubblica Socialista di Serbia nel novembre dell'1987.

I rapporti fra le varie repubbliche erano abbastanza sereni, nonostante la montante insofferenza slovena (un Paese storicamente e tradizionalmente legato alla Mitteleuropa, che considerava la sua vera "patria" culturale) per le strutture federali; all'interno della Serbia era invece evidente il malessere tra i Serbi e gli Albanesi del Kosovo. La provincia serba era ormai a schiacciante maggioranza albanese (anche per l'alto tasso di crescita degli Albanesi, mentre la percentuale di Serbi diminuiva progressivamente) e chiedeva, come già in passato, maggiore autonomia politica, anche attraverso la costituzione della settima repubblica jugoslava, il Kosovo sganciato dalla Serbia.

Nel 1986 venne pubblicato il Memorandum dell'Accademia Serba delle Scienze (noto anche come Memorandum SANU), un documento di intellettuali serbi che denunciavano una generale campagna anti-serba, esterna e interna alla repubblica, e forniva le basi ad un rinato nazionalismo serbo basato sulla riedizione della teoria della "Grande Serbia", già presente (e concausa scatenante del primo conflitto mondiale) nella prima metà del Novecento. Milošević non esitò a soffiare e cavalcare questa ondata nazionalista, adottando la teoria secondo la quale "la Serbia è là dove c'è un serbo". Nell'ottobre 1988 costrinse alle dimissioni il governo provinciale della Vojvodina, a lui avverso; riformò la costituzione serba, eliminando l'autonomia costituzionalmente garantita al Kosovo (28 marzo 1989); guidò infine enormi manifestazioni popolari (Belgrado, 18 novembre 1988 e in Kosovo, 28 giugno 1989).

In Croazia nel maggio del 1989 si formò l'HDZ (Hrvatska Demokratska Zajednica, Comunità democratica croata), partito anti-comunista di centro-destra che a tratti riprendeva le idee scioviniste degli ustascia di Ante Pavelić, guidato dal controverso (si vedano alcune dichiarazioni sulla religione ebraica [3]) ex generale di Tito Franjo Tuđman.

In Slovenia, che con il presidente comunista Milan Kučan per le ragioni storiche anzidette guardava sempre più a nord, scoppiò il caso di Janez Janša, un sergente maggiore dell'esercito jugoslavo accusato di aver rivelato segreti militari ad alcune riviste di Lubiana. Janša parlò di un ipotetico intervento militare federale in caso la Repubblica avesse proclamato lo stato d'emergenza, preludio alla dichiarazione d'indipendenza. Il processo al sergente si tenne in lingua serbo-croata e non in sloveno, violando il principio del pluirilinguismo.

Nel frattempo anche nel piccolo Montenegro la vecchia dirigenza titoista venne spazzata via (1989): alla presidenza della Repubblica venne eletto il giovane e filo-serbo Momir Bulatović.

[modifica] Fine della Jugoslavia (1990)

Gruppi etnici
(dati censimento 1991) [4]
Serbi 36%
Croati 20%
Bosniaci musulmani 10%
Albanesi 9%
Sloveni 8%
Macedoni 6%
"Jugoslavi" 3%
Montenegrini 2%
Ungheresi 2%

In un clima sempre più teso, destava seria preoccupazione anche la situazione economica, con una Federazione ormai troppo scissa tra nord e sud [5]. Il dinaro jugoslavo subì diverse svalutazioni e il potere d'acquisto diminuì progressivamente. Il governo federale fu affidato ad un tecnico (19 febbraio 1989), l'economista croato Ante Marković, che propose una solida e strutturale riforma economica e preparò la domanda di adesione del paese alla Comunità Economica Europea.

Il piano economico sembrava funzionare, nonostante le inevitabili conseguenze sociali (aumento della disoccupazione e della povertà, diminuzione dei sussidi statali), ma venne travolto dalle turbolenze etniche e dalla disgregazione complessiva della Federazione.

Il 20 gennaio del 1990 venne convocato il quattordicesimo e ultimo congresso (convocato straordinariamente) della Lega dei Comunisti Jugoslavi, con uno scontro frontale tra delegati serbi e sloveni, in particolare riguardo la situazione in Kosovo, la politica economica e le riforme istituzionali (creazione di una nuova federazione o confederazione, la terza Jugoslavia). Per la prima volta nella storia, Sloveni e Croati decisero di ritirare i loro delegati dal congresso. Ormai era chiaro che il Paese viaggiava a due velocità, non più armonizzabili.

[modifica] L'indipendenza slovena (1991)

Nel nord della Federazione vennero indette subito libere elezioni, che determinano la vittoria di forze di centro-destra: in Slovenia la coalizione democristiana Demos formò un nuovo governo, mentre Kučan restò presidente della Repubblica; in Croazia i nazionalisti dell'HDZ di Tuđman vinsero le consultazioni (22 aprile - 7 maggio 1990).

Il 23 dicembre 1990 in Slovenia si tenne un referendum sull'indipendenza, o meglio sulla sovranità slovena, dal momento che si parlava anche della costruzione di una nuova confederazione di repubbliche, le cui basi andavano ridiscusse. Va inoltre precisato che la costituzione della RFSJ prevedeva costituzionalmente il diritto alla secessione unilaterale per ciascuna delle sei repubbliche costituenti.

Data l'indisponibilità serba a rivedere radicalmente l’assetto dello stato, la sera del 25 giugno del 1991 nella piazza centrale di Lubiana il presidente Milan Kučan proclamò unilateralmente l'indipendenza slovena. La conclusione del discorso di Kučan lasciava intendere un'immediata risposta delle truppe federali: Nocoj so dovoljene sanje, jutri je nov dan ("Stasera i sogni sono permessi, domani è un nuovo giorno").

La risposta dell'Esercito popolare jugoslavo (JNA) non si fece attendere: il 27 giugno l'esercito intervenne in Slovenia. Iniziò così la prima guerra in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Janez Janša, divenuto ministro sloveno della difesa, cercò di costituire un esercito nazionale, soprattutto mediante le milizie territoriali della Repubblica, istituite da Tito in chiave anti-sovietica. Gli Sloveni presero il controllo delle basi militari federali nel Paese e delle frontiere con Italia ed Austria. La guerra (“Guerra dei dieci giorni”) si concluse in poco più di una settimana, essendo la nazione etnicamente compatta e sostenuta politicamente dal Vaticano (in chiave anticomunista) dall'Austria e soprattutto dalla Germania per le ragioni storiche già accennate, che si impegnò subito a riconoscerne l'indipendenza e spinse perché anche l’intera CEE facesse lo stesso. Molti analisti considerarono e considerano questa fretta, e il predominio di interessi "obliqui" (volontà nazionalista della Germania riunificata di riconquistarsi uno spazio di influenza sulle regioni precedentemente appartenute all'Impero Austro-Ungarico, difesa unilaterale da parte del Vaticano delle cattoliche Slovenia e Croazia, contro l'ortodossa Serbia), un errore sul terreno di notevoli proporzioni, e una concausa importante del precipitare drammatico degli eventi successivi.

L'8 luglio vennero firmati gli Accordi di Brioni, siglati da Kučan, Tuđman, divenuto presidente croato, Marković, premier federale, dal serbo Borisav Jović, presidente di turno della presidenza collegiale jugoslava e dai ministri degli esteri della troika europea Hans van den Broek (Olanda), Jacques Poos (Lussemburgo) e João de Deus Pinheiro (Portogallo). Gli accordi prevedevano l'immediata cessazione di ogni ostilità dell'esercito jugoslavo in Slovenia e il congelamento per tre mesi della dichiarazione di indipendenza. La piccola repubblica diventava così indipendente da Belgrado.

[modifica] La guerra in Croazia (1991-1995)

[modifica] Tuđman al potere e l'inizio della guerra

Le elezioni croate della primavera del 1990 avevano visto vincere i nazionalisti di Tuđman, supportati anche dalla diaspora, davanti ai comunisti riformati di Ivica Račan.

Nell'estate del 1990, nella regione montagnosa della Krajina (ai confini con la Bosnia), a maggioranza serba, venne proclamata la formazione della Regione Autonoma Serba della Krajina. In un clima di tensione sempre più forte, i Serbi bloccarono per un certo periodo le strade di turisti che si recavano per le vacanze in Dalmazia. Il 2 settembre si tenne nella stessa regione un referendum sull'autonomia e per una possibile futura congiunzione con la Serbia.

Il 19 marzo 1991 si svolse in Croazia un referendum per la secessione del Paese dalla Jugoslavia. La consultazione venne boicottata nelle Krajine. Il 9 aprile il presidente Tuđman, riorganizzando le forze di polizia speciali, ordinò la costituzione di un esercito nazionale croato (Zbor Narodne Garde). Nel maggio a Borovo Selo, nelle immediate vicinanze di Vukovar, vennero uccisi in un'imboscata prima due e poi dodici poliziotti croati.

La dichiarazione di indipendenza (25 giugno), conseguenza diretta dei risultati del referendum, provocò l'intervento militare jugoslavo, deciso a non permettere che territori abitati da Serbi fossero smembrati dalla Federazione e slegati dalla madrepatria serba. La teoria nazionalista serba diventa così ideologia portante di tutta la Jugoslavia e del suo esercito.

L'attacco, iniziato nel luglio del 1991, coinvolse numerose città croate: Ragusa/Dubrovnik, Sebenico, Zara, Karlovac, Sisak, Slavonski Brod, Osijek, Vinkovci e Vukovar.

[modifica] L'assedio di Vukovar

Il simbolo della guerra serbo-croata è divenuto l'assedio alla città di Vukovar, nella Slavonia (25 agosto - 18 novembre 1991), un territorio in cui Serbi e Croati riuscivano a convivere, fino a poco tempo prima, serenamente. La città fu bombardata e quasi completamente rasa al suolo dai Serbi, che impegnarono 20.000 uomini e 300 carri armati. Oltre alle truppe regolari dell'JNA, a Vukovar combatterono anche i paramilitari di Željko Ražnatović "Arkan", responsabili, assieme all'esercito, di saccheggi e uccisioni di centinaia di civili (compresi i malati presenti nell'ospedale cittadino), ignorando ogni convenzione di guerra.

L'assedio si conclude con la vittoria serba il 18 novembre, con circa 1100 civili uccisi e 5000 persone deportate in Serbia.

[modifica] L'evoluzione della guerra

Piano strategico d'invasione della Croazia dell'Esercito popolare jugoslavo (1991). L'JNA fu incapace di avanzare secondo i progetti a causa della resistenza croata.
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Piano strategico d'invasione della Croazia dell'Esercito popolare jugoslavo (1991). L'JNA fu incapace di avanzare secondo i progetti a causa della resistenza croata.

Il 5 ottobre Tuđman si rivolse alla popolazione croata, esortandola a mobilitarsi e difendere il Paese, attaccato dall'JNA e da diverse formazioni paramilitari, espressioni dell'"imperialismo serbo". Questa espressione è densa di riferimenti storici, che non dovevano passare inosservati e inavvertiti in un paese in cui la memoria storica del "piccolo imperialismo serbo" anteguerra non doveva essere mai stata sepolta. Il 7 ottobre una forte esplosione colpì la sede del governo a Zagabria, durante una riunione a cui partecipavano Tuđman, il presidente federale Stjepan Mesić [6] e il primo ministro federale Marković. Il governo croato accusò i vertici dell'JNA di essere responsabili dell'attacco, mentre l'esercito jugoslavo asserì che l'esplosione era opera delle stesse forze di Tuđman. Il giorno seguente il parlamento croato sciolse ogni residuo legame con le istituzioni federali. L'8 ottobre venne proclamato giorno dell'indipendenza croata.

Il 19 dicembre 1991, nel periodo in cui infuriava maggiormente la guerra, i Serbi della Krajina proclamarono ufficialmente la nascita della Repubblica Serba della Krajina.

Il 4 gennaio 1992 entrò in vigore il quindicesimo (e finalmente per un certo periodo rispettato da entrambe le parti) "cessate il fuoco". L'JNA si ritirò dalla Croazia entrando in Bosnia, dove la guerra non era ancora iniziata, mentre la Croazia (assieme alla Slovenia) venne riconosciuta ufficialmente dalla CEE (15 gennaio) ed entrò a far parte dell'ONU (22 maggio).

Nei mesi successivi il conflitto continuò su piccola scala e le forze croate tentarono di riconquistare le città passate sotto il controllo serbo, in particolare nell'area di Ragusa/Dubrovnik (il cui centro fu bombardato dai Serbi il 6 dicembre 1991) e Zara.

Nel settembre 1993, nell'ambito dell'operazione Sacca di Medak (Medački džep) contro i Serbi di Krajina, i Croati, guidati dal generale Janko Bobetko, compirono una serie di crimini contro l'umanità e di violazioni del diritto internazionale di guerra, causando la morte anche di 11 militari delle forze di peacekeeping dell'ONU.

Nel frattempo la Croazia venne coinvolta pienamente nella guerra in Bosnia-Erzegovina (iniziata nell'aprile del 1992). Alcune fra le persone più vicine a Tuđman, tra cui Gojko Šušak e Ivić Pašalić, provenivano infatti dalla regione dell'Erzegovina e sostenevano finanziariamente e militarmente i Croati di Bosnia.

Nel 1993, scoppiò la guerra fra Croati di Bosnia e Bosgnacchi (cittadini bosniaci di religione musulmana). I Croati avevano infatti proclamato il 2 luglio 1992 la Repubblica di Herceg Bosna con lo scopo di aggregare la regione di Mostar alla Croazia.

Franjo Tuđman partecipò ai colloqui di pace fra Croati di Bosnia-Erzegovina e Bosgnacchi, conclusi con gli accordi di Washington (1 marzo 1994). Gli Americani imposero la creazione di una Federazione Croato-Musulmana, e di un'alleanza ufficiale tra Croazia e Bosnia-Erzegovina (ratificata a Spalato, 22 luglio 1995). Tuttavia sembra che Tuđman più volte si sia incontrato con Milosević allo scopo di spartire, anche con le armi, la Bosnia-Erzegovina tra Croazia e Serbia [7].

[modifica] Le operazioni Lampo e Tempesta

Mappa dell'Operazione Tempesta condotta dalle forze croate.
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Mappa dell'Operazione Tempesta condotta dalle forze croate.

Nei primi giorni di maggio del 1995 venne lanciata dalle forze croate nelle pianure della Slavonia l'operazione Lampo (Operacija Bljesak). Nell'agosto dello stesso anno iniziò anche l'operazione Tempesta (Operacija Oluja) nella regione della Krajina. Obiettivo di queste campagne militari era la riconquista del territorio croato controllato dai Serbi. Le operazioni militari costrinsero alla fuga centinaia di migliaia di civili (secondo i dati dell'ultimo censimento jugoslavo del 1991 i Serbi rappresentavano il 12,16% della popolazione croata). Si stima che più di 200.000 Serbi furono obbligati alla fuga dall'esercito croato, che si rese protagonista di una delle operazioni di pulizia etnica più rilevanti di tutto il periodo 1991 - 1995. Il Tribunale Internazionale dell'Aja ritenne responsabili di tali atrocità diversi comandanti militari croati, tra cui il generale Ante Gotovina [8].

Le operazioni militari terminarono con un netto successo militare croato (le forze serbe non opposero grande resistenza).

La guerra si concluse pochi mesi dopo (Accordi di Dayton, dicembre 1995). Gli accordi prevedevano che i territori a forte presenza serba nell'est del Paese (Slavonia, Baranja e Sirmia) fossero temporaneamente amministrati dalle Nazioni Unite (UNTAES). L'area fu formalmente reintegrata nella Croazia il 15 gennaio 1998.

Le Krajine negoziarono un pacifica reintegrazione nella Repubblica Croata.

[modifica] La guerra in Bosnia-Erzegovina (1992-1995)

[modifica] La situazione in Bosnia-Erzegovina

Gruppi etnici in Bosnia-Erzegovina
(dati censimento 1991)
Bosniaci musulmani 44%
Serbi 31%
Croati 16%
"Jugoslavi" o altro 6%

Mentre la guerra infuriava in Croazia, la Bosnia-Erzegovina, formata da tre diverse etnie (Bosgnacchi, Serbi e Croati) era in una situazione di pace momentanea ed "artificiale", in quanto le tensioni etniche erano pronte ad esplodere.

Nel settembre del 1991 l'Esercito popolare jugoslavo distrusse un piccolo villaggio all'interno del territorio bosniaco, Ravno, abitato da Croati, nel corso dell'operazioni militari d'assedio di Ragusa/Dubrovnik (città sulla costa dalmata situata in Croazia).

Il 19 settembre l'JNA spostò alcune truppe nei pressi della città di Mostar, provocando le proteste delle autorità locali. Preoccupati dall'idea che i Serbi stessero per attuare il progetto della "Grande Serbia", occupando parte del territorio bosniaco, il 18 novembre 1991 i Croati dell'Erzegovina formarono la "Comunità Croata di Hergec Bosnia" (Hrvatska Zajednica Herceg-Bosna), embrione della futura Repubblica di Hergec Bosna, allo scopo di proteggere i loro interessi nazionali. Tuttavia, almeno fino al marzo del 1992, non vi furono episodi di scontro frontale tra le diverse nazionalità, che si stavano però preparando al conflitto, ormai imminente.

[modifica] Il referendum per l'indipendenza

Il 25 gennaio il Parlamento, nonostante la ferma opposizione dei Serbo-bosniaci, decise di organizzare un referendum sull'indipendenza della Repubblica. Il 29 febbraio e il 1 marzo si tenne dunque nel territorio della Bosnia-Erzegovina il referendum sulla secessione dalla Jugoslavia. Il 64% dei cittadini si espresse a favore. I Serbi boicottarono però le urne e bloccarono con barricate Sarajevo. Il Presidente della Repubblica, il musulmano Alija Izetbegović [9], chiese l'intervento dell'esercito, affinché garantisse un regolare svolgimento delle votazioni e la cessazione delle tensioni etniche. Il partito che maggiormente rappresentava i Serbi di Bosnia, il Partito Democratico Serbo di Radovan Karadžić, fece sapere però subito che i suoi uomini si sarebbero opposti in qualsiasi modo all'indipendenza.

Subito dopo il referendum l'JNA iniziò a schierare le sue truppe nel territorio della Repubblica, occupando tutti i maggiori punti strategici (aprile 1992). Tutti i gruppi etnici si organizzarono in formazioni militari ufficiali: i Croati costituirono il "Consiglio Militare Croato" (Hrvatsko Vijeće Obrane, HVO), i Bosgnacchi l'"Esercito di Bosnia-Erzegovina" (Armija Bosne i Hercegovine, Armija BiH), i Serbi l'Esercito della Repubblica Serba (Vojska Republike Srpske, VRS). Erano inoltre presenti numerosi gruppi paramilitari: fra i Serbi le "Aquile Bianche" (Beli Orlovi), fra i Bosgnacchi la "Lega Patriottica" (Patriotska Liga) e i "Berretti Verdi" (Zelene Beretke) , fra i Croati le "Forze Croate di Difesa" (Hrvatske Obrambene Snage).

[modifica] La guerra fra le tre nazionalità

La sede del parlamento della Bosnia-Erzegovina nel 1992
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La sede del parlamento della Bosnia-Erzegovina nel 1992

La guerra che ne derivò fu sicuramente la più complessa, caotica e sanguinosa guerra in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Vennero firmati dalle diverse parti in causa diversi accordi di cessate il fuoco, inizialmente accettati, per essere stracciati solo poco tempo dopo. Le Nazioni Unite tentarono più volte di far cessare le ostilità, con la stesura piani di pace che si rivelarono fallimentari (piani falliti di Carrington-Cutileiro, settembre 1991, Vance-Owen, gennaio 1993, Owen-Stoltenberg, agosto 1993). Inoltre le trattative venivano spesso condotte da mediatori spesso deboli e inadatti (come gli inglesi Peter Carrington e David Owen), che finirono per far aggravare il conflitto più che pacificarlo.

Inizialmente i Bosgnacchi e i Croati combatterono alleati contro i Serbi, i quali erano dotati di armi più pesanti e controllavano gran parte del territorio rurale, con l'eccezione delle grandi città di Sarajevo e Mostar. Nel 1993, dopo il fallimento del piano Vance-Owen, che prevedeva la divisione del Paese in tre parti etnicamente pure, scoppiò un conflitto armato tra Bosniaci musulmani e Croati sulla spartizione virtuale del territorio nazionale. É stato dimostrato il coinvolgimento del governo croato di Tuđman in questo conflitto, che lo rese in questo modo internazionale (Zagabria sostenne militarmente i Croato-Bosniaci).

Mostar, già precedentemente danneggiata dai Serbi, fu costretta alla resa alle forze croato-bosniache. Il centro storico fu deliberatamente bombardato dai Croati, che distrussero il famoso vecchio ponte (Stari Most, 9 novembre 1993).

Il bilancio della guerra fu spaventoso: la capitale del Paese, Sarajevo, fu assediata (dalle truppe serbo-bosniache) per 43 mesi. Ciascuno dei tre gruppi nazionali si rese protagonista di crimini di guerra e di operazioni di pulizia etnica.

Il Centro di ricerca e documentazione di Sarajevo ha diffuso le cifre documentate (ma non definitive) sui morti della guerra in Bosnia-Erzegovina: 93.837 quelli accertati fino al dicembre 2005. Di questi 63.687 sono Bosgnacchi (67,87%), 24.216 Serbi (25,8%), 5.057 Croati (5,39%) e 877 dichiaratisi Jugoslavi al censimento del 1991 o stranieri (0,93%).

[modifica] L'assedio di Sarajevo

 Sarajevo, militari dell'Esercito bosniaco
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Sarajevo, militari dell'Esercito bosniaco
Per approfondire, vedi la voce Assedio di Sarajevo.

Il 5 aprile 1992 migliaia di cittadini avevano organizzato per le strade di Sarajevo marce pacifiche per la conclusione del conflitto e di protesta contro i tre partiti etnici e nazionalisti al potere, il Partito Democratico Serbo (DDS) di Karadžić, il Partito dell'Azione Democratica (SDA) di Izetbegović e la Comunità Democratica Croata (HDZ) di Mate Boban. Un manifestante venne trovato ucciso: iniziò l'assedio di Sarajevo. Il giorno dopo la CE riconobbe ufficialmente lo stato di Bosnia-Erzegovina, mentre i deputati serbi di Bosnia proclamarono l'indipendenza della Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina (Republika Srpska).

Il 2 maggio 1992 venne ufficializzato dai Serbi, che si erano appostati sulle colline vicine, il blocco generale della città. I principali accessi alla città vengono bloccati, così come i rifornimenti di cibo e medicine. Sarajevo si ritrovò priva di elettricità, acqua e riscaldamento. Per tentare di arginare il blocco serbo, l'ONU riaprì l'aeroporto di Sarajevo, dal quale la città sarà a lungo dipendente.

Il periodo più duro per la città fu quello compreso tra la seconda metà del 1992 e la prima metà del 1993. Gli attacchi serbi si fecero più intensi e vennero commesse numerose atrocità, anche se alcuni abitanti serbi di Sarajevo decisero di unirsi agli assediati e di difendere la città. Tra il 1992 e il 1995, gli stessi Serbi di Sarajevo furono oggetto di pulizia etnica da parte dei Bosniaci musulmani, venendo espulsi dalla città, mentre diverse migliaia vennero uccisi.

Nel settembre 1993 si stimarono in 35.000 gli edifici e le strutture cittadine distrutte, tra cui ospedali, industrie, la sede della Presidenza della Bosnia-Erzegovina, ministeri, sedi di media e giornali, la Biblioteca Nazionale, nonché migliaia di abitazione civili.

Fra le diverse atrocità commesse, la più grave fu l'uccisione di 68 Bosgnacchi civili da parte di Serbi in un mercato della città (12 giugno 1993).

[modifica] Srebrenica

Per approfondire, vedi la voce Massacro di Srebrenica.
Ratko Mladić, generale serbo-bosniaco responsabile del massacro
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Ratko Mladić, generale serbo-bosniaco responsabile del massacro

Nel luglio 1995 furono uccisi 7500-8000 bosgnacchi maschi, in gran parte civili, in età compresa tra l'adolescenza e la vecchiaia, nella zona di Srebrenica (Bosnia orientale, ora parte della Repubblica Serba). Il massacro fu ordinato dall'Esercito della Repubblica Serba, agli ordini del generale Ratko Mladić; alle operazioni di sterminio parteciparono anche le unità speciali degli "Scorpioni".

La zona di Srebrenica era stata dichiarata zona protetta dalle Nazioni Unite (Risoluzione 819 dell'aprile 1993) e costituiva un'enclave in territorio serbo-bosniaco abitata da Bosniaci musulmani e protetta dalle forze militari dell'ONU.

L'Esercito serbo-bosniaco violò gli accordi entrando una prima volta nell'enclave nel giugno del 1995. Constatando l'assenza di alcun intervento di difesa da parte dell'ONU, il presidente serbo-bosniaco Radovan Karadžić autorizzò all'esercito la presa della città il 9 luglio 1995. Le numericamente insufficienti truppe dell'ONU (tre compagnie olandesi) non intervennero a favore della popolazione civile e il generale Karremans si limitò a chiedere un intervento urgente delle forze aeree della NATO per bloccare i Serbo-bosniaci. La città cadde l'11 giugno e l'intera popolazione venne evacuata nei pressi del sobborgo industriale di Potočari. Qui venne divisa in due gruppi, donne e bambini (che raggiunsero con dei pullman Tuzla) e uomini, in gran parte giustiziati, a volte alle presenza degli stessi caschi blu olandesi.

Il massacro provocò un enorme reazione nell'opinione politica internazionale, segnando l'inizio della fine della guerra in Bosnia. Dopo i primi mesi in cui il ministero della difesa olandese vietò ai suoi soldati qualsiasi dichiarazione riguardo a Srebrenica, in seguito ai risultati del rapporto commissionato dal'Aja l'intero governo olandese (guidato, come nel 1995, da Wim Kok), si dimise nell'aprile del 2002.

[modifica] Gli accordi di Dayton

Per approfondire, vedi la voce Accordi di Dayton.
Slobodan Milošević, Alija Izetbegović e Franjo Tuđman firmano gli Accordi di Dayton
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Slobodan Milošević, Alija Izetbegović e Franjo Tuđman firmano gli Accordi di Dayton
Suddivisione del territorio bosniaco nella Federazione croato-musulmana (azzurro), Repubblica Serba (rosso) e Distretto Autonomo di Brčko (verde)
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Suddivisione del territorio bosniaco nella Federazione croato-musulmana (azzurro), Repubblica Serba (rosso) e Distretto Autonomo di Brčko (verde)

La guerra si concluse con la firma degli accordi stipulati a Dayton, Ohio, tra il 1 e il 26 novembre 1995. Parteciparono ai colloqui di pace tutti i maggiori rappresentanti politici della regione: Slobodan Milošević, presidente della Serbia e rappresentante degli interessi dei Serbo-bosniaci (Karadžić era assente), il presidente della Croazia Franjo Tuđman e il presidente della Bosnia Erzegovina Alija Izetbegović, accompagnato dal ministro degli esteri bosniaco Muhamed "Mo" Sacirbey. La conferenza di pace fu guidata dal mediatore americano Richard Holbrooke, assieme all'inviato speciale dell'Unione Europea Carl Bildt e al viceministro degli esteri della Federazione Russa Igor Ivanov.

L'accordo (formalizzato a Parigi, 14 dicembre 1995) sanciva l'intangibilità delle frontiere, uguali ai confini fra le repubbliche federate della RSFJ, e prevedeva la creazione di due entità interne allo stato di Bosnia Erzegovina: la Federazione Croato-Musulmana (51% del territorio nazionale, 92 municipalità) e la Repubblica Serba (RS, 49% del territorio e 63 municipalità).

Le due entità create sono dotate di poteri autonomi in vasti settori, ma sono inserite in una cornice statale unitaria. Alla Presidenza collegiale del Paese (che ricalca il modello della vecchia Jugoslavia del dopo Tito) siedono un serbo, un croato e un musulmano, che a turno, ogni otto mesi, si alternano nella carica di presidente - primus inter pares.

Particolarmente complessa la struttura legislativa: ciascuna entità è dotata di un parlamento locale: la Repubblica Serba di un'assemblea legislativa unicamerale, mentre la Federazione Croato-Musulmana di un organo bicamerale. A livello statale vengono invece eletti ogni quattro anni gli esponenti della camera dei rappresentanti del parlamento, formata da 42 deputati, 28 eletti nella Federazione e 14 nella RS; infine della camera dei popoli fanno parte 5 serbi, 5 croati e 5 musulmani.

[modifica] Note

  1. il Paese negli anni settanta era il più grande cantiere d'Europa (Tatjana Globocjkar, Courriere de payes de l'Est).
  2. si ricorda che la Jugoslavia, prima della sua dissoluzione, era caratterizzata da un relativo benessere. Gli indicatori di sviluppo degli anni ottanta (nonostante la crisi economica) corrispondevano ai Paesi meno sviluppati dell’Unione Europea (Spagna, Irlanda, Grecia, Portogallo). Al riguardo si citano i dati dello Human Development Report (ONU) 1992:
    Analfabetismo tra gli adulti (1990): 7,3 %
    Quotidiani venduti per 1000 abitanti (1990): 100
    PIL pro capite (1989): 2.920 US$
    Quota del reddito del 40% delle famiglie più povere (1980-1988): 17,1%
    Numero di abitanti per medico (1984): 550.
  3. Tuđman nel libro "La deriva della verità storica" mette in discussione lo sterminio di 750 mila serbi e 25 mila ebrei nello Stato Indipendente Croato di Ante Pavelić (1941-1944). È inoltre celebre una frase di Tuđman pronunciata durante gli anni della guerra serbo-croata: "Per fortuna mia moglie non è serba né ebrea".
  4. il governo federale riconosceva sei "gruppi nazionali": Serbi, Croati, Bosgnacchi (Bosniaci musulmani), Sloveni, Macedoni, Montenegrini, in quanto ciascuno di questi gruppi riconosceva come madrepatria una regione del territorio jugoslavo. Albanesi e Ungheresi avevano la status di "minoranze nazionali".
  5. con l'8% della popolazione complessiva nel 1980 la Slovenia produceva un terzo del Prodotto nazionale lordo jugoslavo. Sloveno era inoltre un quarto delle esportazioni complessive. Il Kosovo, provincia più povera della Federazione, aveva un reddito pro capite pari a un terzo di quello medio jugoslavo e pari a meno di un quinto di quello della Slovenia (1989).
  6. il 15 maggio 1991 Serbia, Montenegro, Kosovo e Vojvodina (Paesi i cui voti erano controllati da Milosević) avevano rifiutato di accordare la fiducia al presidente federale di turno, Stjepan Mesić, che avrebbe assunto anche la carica di comandante dell'Armata, solo perché croato. Era stata dunque violata la prassi della rotazione della presidenza fra le repubbliche. La presidenza Mesić avrebbe potuto garantire in un momento molto delicato una trattativa pacifica e autentica per la riforma costituzionale della Jugoslavia. Su pressione della CEE Mesić venne eletto presidente solo il 29 giugno. Il 12 settembre Mesić ordinò alla JNA di lasciare le caserme in Croazia, ma l'ordine non verrà eseguito. Il 5 dicembre, Mesić si dimetterà affermando:” La Jugoslavia non esiste più”.
  7. al riguardo:
    • l'ex primo ministro federale Ante Marković (testimonianza al processo Milosević del Tribunale dell’Aja) ha dichiarato che i due "nemici storici" tennero una serie di incontri segreti nel marzo del 1991 a Karadjordjevo, la nota riserva di caccia del presidente Tito, per parlare del futuro della Bosnia-Erzegovina;
    • Hrvoje Sarinić, ex stretto collaboratore di Tuđman, ha descritto allo stesso tribunale 13 suoi incontri segreti (su mandato di Tuđman) con Milosević avvenuti tra il 1991 e il 1995.
  8. dopo una lunga latitanza Ante Gotovina è stato catturato alle isole Canarie e consegnato al Tribunale dell'Aja il 7 dicembre 2005.
  9. sebbene Alija Izetbegović sia sempre stato considerato una figura più moderata rispetto ai nazionalisti Milosević e Tuđman, anche il presidente della Bosnia Erzegovina aveva un passato abbastanza controverso, soprattutto in riferimento ai rapporti con gruppi religiosi islamici e alle nazioni musulmane con cui aveva relazioni. Nel 1946, a conclusione della seconda guerra mondiale, Izetbegovic fu processato per aver fatto parte dei "Giovani Musulmani", gruppo creato in Bosnia per la difesa della identità islamica. Nel 1951 fu condannato a tre anni di carcere per "attività sovversive" e nel 1972 fu processato per aver scritto due anni prima la "Dichiarazione Islamica". Dieci anni dopo fu nuovamente condannato con l'accusa di "estremismo" e per "attività panislamiche". Condannato a 14 anni ne scontò meno di sei.

[modifica] Bibliografia sommaria

  • S. Bianchini, L'enigma jugoslavo. Le ragioni della crisi, Franco Angeli, Milano 1989
  • S. Bianchini, La questione jugoslava, Giunti, Firenze 1996
  • C. Bennet, Yugoslavia's Bloody Callapse. Causes, Course und Consequences, Hurst & Company, Londra 1995
  • C. Cviic, Rifare i Balcani, Il Mulino, Bologna 1993
  • C. Diddi, V. Piattelli, Dal mito alla pulizia etnica. La guerra contro i civili nei Balcani, Cultura della pace, Assisi 1995
  • J. Krulic, Storia della Jugoslavia, Bompiani, Milano 1997
  • P. Rumiz, La linea dei mirtilli, Editori Riuniti, Roma 1997
  • P. Rumiz, Maschere per un massacro, Editori Riuniti, Roma 1996
  • J. Pirjvec Il giorno di San Vito. Jugoslavia 1918-1992. Storia di una tragedia, ERI, Roma 1993
  • J. Pirjvec, Le guerre jugoslave, Einaudi, Torino 2002
  • L. Silber, A. Little Yugoslavia: Death of a Nation, Penguin Books, Londra 1997
  • The Death of Yugoslavia, documentario della BBC in cinque episodi diretto da A. Macqueen, 1995 (trasmesso in Italia da RAI e SKY con il titolo di Jugoslavia, morte di una nazione)

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