Inferno - Canto tredicesimo
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[modifica] Incipit
Canto XIII, ove tratta de l'esenzia del secondo girone ch'è nel settimo circulo, dove punisce coloro ch'ebbero contra sé medesimi violenta mano, ovvero non uccidendo sé ma guastando i loro beni.
[modifica] Analisi del Canto
[modifica] La selva dei suicidi - versi 1-30
Dante e Virgilio, attraversato il Flegetonte grazie all'aiuto del centauro Nesso, si ritrovano in un bosco tenebroso. Non ci sono sentieri (vedremo poi che ciò è dovuto alla nascita casuale delle piante e al fatto che il dover farsi strada tra gli sterpi sia parte della pena degli scialacquatori) e Dante evoca il sinistro luogo con una famosa terzina scandita da un'anafora "Non..., ma..."
«Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco.» |
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(vv. 4-6)
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Non ci sono piante verdi quindi, ma di colore scuro, non rami dritti ma nodosi e contorti, nessun frutto ma solo spine avvelenate. Dante fa una similitudine: le dimore tra Cecina e Corneto (cioè la Maremma) di quelle bestie che odiano i terreni coltivati non sono in confronto così fitte e con vegetazione tanto aspra. Qui, dice il poeta, le Arpie (le "brutte" Arpie, che cacciarono con presagi funesti i troiani dalla Strofade, da un'episodio del III libro dell'Eneide) fanno i loro nidi: esse, descrive il poeta, sono col corpo di uccello e volto umano, e emettono lamenti su questi strani alberi (o strani lamenti? è incerto). La descrizione delle Arpie è piuttosto statica ed esse non hanno nessuna azione diretta nel canto: Dante le sente e le vede, ma lo dice come se stesse descrivendole senza guardare, a prescindere dalla percezione.
Virgilio allora, prima di entrare nel bosco, ricorda a Dante che si tratta del secondo girone del VII c erchio, quello dei violenti contro sè stessi, al quale seguirà il "sabbione" dei violenti contro Dio e contro natura. Inoltre la guida dice a Dante di guardare bene, che vedrà cose che a raccontargliele non ci crederebbe.
Infatto Dante nota come si sentissero lamenti ovunque senza vedere alcuno, al che pensa che ci siano delle anime nascoste tra la boscaglia. Virglio gli legge nel pensiero e lo invita a troncare un rametto da una pianta perchè la sua idea venga confutata ("li pensier c'hai si faran tutti monchi", v. 30). Inizia al verso 25 lo stile arzigogolato di figure retoriche tipico di questo canto, ispirato allo stile ufficiale delle lettere dei funzionari di Stato come Pier della Vigna che si incontrerà tra breve: "Cred'io ch'ei credette ch'io credesse".
Questa foresta quindi è mostruosamente intricata e il poeta si sofferma nel descrivere i dettagli più angoscianti perché il lettore non immagini il luogo come un ameno boschetto: niente foglie, frutti e fiori, e al posto del cinguettio degli uccelli si sentono solo le grida delle arpie e i lamenti.
Non dobbiamo poi immaginare maestosi alberi ad alto fusto, ma sterpi, arbusti nodosi, come ve ne sono in Maremma, alti comunque abbastanza da appendere un corpo umano (come verrà detto ai vv. 106-108).
É la selva dei violenti contro sé stessi, suicidi e scialacquatori, come preannunciato nello schema dell'Inferno nel XI. Per Dante la violenza contro sé stessi è più grave della violenza contro il prossimo, confermando in pieno la visione teologica di San Tommaso D'Aquino: il comandamento di "amare il prossimo tuo come te stesso" postula prima un amore verso la nostra persona in quanto riflesso della grazia e della grandezza divina.
[modifica] L'arbusto sanguinante - vv. 31-54
Dante "coglie" gentilmente un ramicello da un grande arbusto e viene soprpreso dal grido "Perché mi schiante?" seguito dal fuoriuscire di sangre marrone dal punto reciso. Di nuovo arrivano parole dalla pianta "Perché mi scerpi? / non hai tu spirto di pietade alcuno? / Uomini fummo, e or siam fatti sterpi" (vv. 35-37) cioè "perché mi laceri? Eravano uomini e ora siamo piante, perciò la tua mano dovrebbe essere più clemente". Al che Dante impaurito molla subito il ramo.
Come quando si brucia un legno verde, dal quale esce liquido linfatcio da un alto e della'altro cigola soffiando vapore, così dal punto della frattura "usciva"(-no) parole e sangue (Dante usa il verbo al singolare per indicare i due sostantivi, secondo una pratica ancora possibile nell'italiano antico).
La situazione è quindi di uomini trasformati in piante, un decadimento verso una forma di vita inferiore che è la pena principale dei dannati di questo girone. Essi hanno rifiutato la loro condizione umana uccidendosi per questo (per analogia) non sono degni di avere il loro corpo. Questa situazione paradossale si manifesta anche in maniera pratica nel canto: i due pellegrini non hanno un volto da guardare e in due occasioni essi non capiscono se il dannato ha finito di parlare o stia per continuare, perché non possono vedere l'espressione del suo volto.
La figura dell'albero sanguinante è ripresa dal III canto dell'Eneide, dove si narra dell'episodio di Polidoro: Enea, sbarcato sulle rive del mare di Tracia, vuole preparare un'ara e strappa alcuni rami da una pianta, ma vede che dal legno trocanto esce sangue, seguito, dopo alcuni tentativi, dalle parole di Polidoro, ultimogenito di Re Primao trasformato in pianta dopo essere stato trucidato da Polimestore con la crivellatura da parte di decine di giavellotti, che invitano Enea a lasciare al più presto la terra maledetta. Al verso 48 Dante ammette di aver usato come fonte Virgilio, anzi è il poeta stesso che dice come quella scena Dante l'abbia veduta già nella "sua" rima.
A questo punto Virgilio si scusa un po' retoricamente (dice che se Dante avesse saputo non avrebbe tagliato il ramoscello, ma in verità era necessario che Dante lo recidesse per il processo pedagogico della Commedia, affinché conoscesse la pena di questi dannati) e dice che comunque in riparazione del danno, se si presenterà, Dante potrà ricordarlo tra i vivi.
[modifica] Pier della Vigna - vv. 55-78
Il tronco, adescato dalle dolci parole, non può tacere e spera di non annoiarli se gli "invischierà" un po' con i suoi discorsi: si notino due verbi tipicamente mutuati dalla partica venatoria, passatempo tipico della corte di Federico II del Sacro Romano Impero, come adescare, prendere con l'esca, e invischiare, afferrare con vischio. Il tono della conversazione si alza e diventa molto ricercato e artificioso, con rime difficili, discorsi intricati e ricchi di figure retoriche come parole ripetute, allitterazioni, metafore, similitudini, ossimori, ecc...
L'anima finalmente si presenta: è colui che tenne entrambe le chiavi del cuore di Federico II (quella dell'aprie e chiudere, ovvero del sì e del no, immagine presente anche in Isaia a proposito di re Davide), e che le girò aprendo e chiudendo così soavemente da diventare l'unico partecipe dei segreti del sovrano; compì il suo incarico glorioso con fedeltà, perdendo prima il sonno e poi la vita; ma quella meretrice che non manca mai nelle corti imperiali (dall'"ospizio di Cesare"), cioè l'invidia, mise gli occhi su di lui e infiammò contro di lui tutti gli animi; e questi infiammati infiammarono a loro volta l'Imperatore (si noti la ripetizione di infiammò, 'nfiammati, infiammar"), che mutò gli onori in lutti. Il suo animo allora, per spirito di sdegno, credendo di sfuggire lo sdegno del sovrano con la morte (disdegnoso/disdegno, altra ripetizione), fece contro di sé ingiustizia sebbene fosse nel giusto (ingiusto/giusto, terza ripetzione). Ma giurando sulle nuove radici del suo legno (la sua morte non è avvenuta da molto), egli proclama la sua innocenza. e se qualcuno di loro (dei due poeti, sottinteso Dante) tornasse nel mondo dei vivi, il tronco prega di confortare lassù la sua memoria, ancora abbattuta del colpo che le diede l'invidia.
In tutta questa lunga perifrasi il dannato non ha mai pronunciato il suo nome, ma ha lasciato elementi sufficienti per la sua identificazione: è Pier della Vigna, ministro di Federico II che ebbe una brillante carriera nella corte imperiale, almeno fino al culmine nel 1246, quando fu nominato protonotaro e logoteta del Regno di Sicilia ed era di fatto il consigliere più potente e vicino al sovrano. Nel 1248, dopo la sconfitta di Vittoria, l'Imperatore cominciò a perdere fiducia nel suo consigliere e un anno dopo, forse a causa di una sopetto di complotto, venne arestato a Cremona e incarcerato a San Miniato al Tedesco (o a Pisa), dove venne accecato con un ferro arroventato, dopo di che si suicidò pare fracassandosi la testa contro il muro della cella. La sua vicenda atroce destò molto scandalo all'epoca e molte storie circa suoi presunti complotto sono spesso frutto di voci non vere. In ogni caso la storiografia moderna ha trovato a sua carico un colloquio sospetto con Papa Innocenzo IV a Lione e alcuni rilevanti abusi di potere.
Dante stesso è colpito da una forte pietà verso i dannato, tanto che non riuscirà a porgergli alcuna domanda e dovrà farlo Virgilio per lui. L'Alighieri inoltre ribadisce la sua innocenza, anche se da un punto di vista teologico questa costituisce un'aggravante al suicidio, perché uccidendosi egli ha ammazzato un innocente.
[modifica] Spiegazione di come i suicidi si trasformino in piante - vv. 79-108
Virgilio, su richiesta di Dante, chiede quindi come le anime si trasformino in piante e se alcuna di esse si divincoli mai da tale forma. Di nuovo il tronco soffia forte e poi da quel "vento" tornano le parole: (parafrasi) "Brevemente vi sarà risposto: quando l'anima feroce del suicida si separa dal corpo dal quale essa stessa di è distaccata con la forza, Minosse (il giudice infernale), la manda al settimo cerchio ("foce"), dove cade nella selva acaos, dove la fortuna la balestra (di nuovo un verbo legato alla caccia). Lì nasce un ramoscello, poi un arbusto: le Arpie mangiando le sue foglie gli arrecnao dolore e il dolore si manifesta in lamenti (chiasmo riferito a come dai rami rotti possano puoi uscire parole e lamenti)" (vv. 93-102)
Poi Piero racconta come dopo il giudizio universale le loro anime trascineranno i corpi alla foresta e gòli appenmderanno ciascuna al suo tronco, senza riunirsi poiché non è giusto riprendere ciò che ci si toglie ("non è giusto aver ciò c'om si togli" v. 105). Questa è un'invenzione puyramente dantesca e nessun teologo parla di questa condizione speciale dei suicidi dopo il giudizio universale. L'idea del bosco dove penzolano macabramente i corpi dei suicidi è una delle più cupe rappresentazioni dell'Inferno.
[modifica] Gli scialacquatori - vv. 109-129
I due poeti sono ancora in attesa di altre parole dal tronco quando la scena cambia completamente. Si sentono rumori di caccia, simile a chi si senta venire incontro un cinghiale braccato da cani e cacciatori e che senta gli animali e le frasche spezzate. Ed ecco che dal lato sinistro Dante vede due anime nude e piene di graffi che scappano per la selva spaccando rami dappertutto.
Quello più avanti grida: "Or accorri, accorri morte!", intesa probabilmente come seconda morte che annullerebbe le loro pene, mentre quello più dietro lo chiama, ricordando a "Lano" che non fuggiva così veloce alle Giostre del Toppo dov'era caduto in battaglia. Stremato il secondo si nasconde dietro un cespuglio, ma arrivano una schiera di cagne nere, che come veltri, lo raggiungono e lo lacerano a brandelli, portando via le sue membra dolenti. Dobbiamo immaginare che del dannato non resti niente, infatti nella scena seguente non se ne accenna più.
I due fuggiaschi braccati sono, secondo lo schema del canto, due violenti contro i loro beni, i cosiddetti "scialaquatori" (usando una parola che non appartiene al vocabolario di Dante) e dalle parole che pronunciano si può risalire alla loro identità. Sono il senese Lano da Siena, morto alle Giostre del Toppo, e Jacopo da Sant'Andrea, oggetto di numerosi aneddoti di come distruggesse con leggerezza le sue proprietà.
La differenza tra il peccato degli scialacquatori e quello dei prodighi sta nelle intenzioni: i primi avevano scopi distruttivi (si cita sempre l'esempio di Jacopo che aveva dava a fuoco le proprie case per diletto), mentre i secondi non sapevano contenere la loro indole a spendere, desiderando solo accumulare beni con rapacità.
[modifica] Il suicida fiorentino - vv. 130-151
Dopo la parentesi della caccia infernale, la scena torna silenziosa e meditativa: Virgilio indica a Dante il cespuglio dove si era riparato Lano e lo vede tutto piangente per le numerose ferite riporatte durante l'assalto. Egli si lamenta contro Jacopo da Santo Andrea ("Che t'è giovato di me fare schermo? / Che colpa ho io della tua vita rea?", vv. 134-135), poi Virgilio gli chiede di parlare un po' di sè.
Il cespuglio prega prima malinconicamente i due pellegrini di raccogliere le sue fronde e metterle ai suoi piedi. Poi inizia a dire che è fiorentino, ma non nomina la città e compie una lunga parafrasi.
Egli dice che era della città che cambiò il primo patrono in San Giovanni Battista, riferendosi alla diffusa leggenda che l'antica Florentia romana fosse una città dedicata al dio Marte. Per questo il rpimo padrone, dio della guerra e della discordia continua a perseguitarla "con la sua arte", rendendola sempre triste. Per fortuna almeno che di lui resta la statua collocata al passaggio sull'Arno, sennò coloro che la ricostruirono dopo la distruzione di Attila avrebbero lavorato invano.
Il cespuglio si sta riferendo alla statua che i fiorentini credevano raffigurasse Marte e che si trovava alla testa dell'antenato del Ponte Vecchio odierno (ricostruito nel Trecento). Questa statua smozzicata, citata da vari cronisti, era il rimasuglio di un cavallo di una statua equestre della quale nessuno ricordava l'origine. Poiché non si conoscono statue equestri di Marte, gli storici moderni hanno avanzato l'ipotesi che si trattasse forse di un'effige di Totila, il re degli Ostrogoti, che fu responsabile della distruzione di Firenze nel 550, non Attila re degli Unni, che Dante indica confondendosi.
La presenza di questo "palladio" veniva vista come una protezione sulla città: nel 1333 fu travolto da un alluvione e i più pessimisti vi videro un preannuncio della peste nera (1348). In ogni caso al tempo di Dante esso esisteva ancora.
Il canto si chiude con un verso lapidario, l'unico sulla biografia del dannato: "Io fei gibetto a me de le mie case", cioè "Io feci la mia forca (gibetto è un francesismo da gibet) nelle mie case", ovvero "mi impiccai in casa mia". La drammatica scena dell'appeso, anonimo come tanti fiorentini che in quelli anni di boom economico non stavano al passo e si toglievano la vita, è permetata del senso di solitudine del suicidio.
[modifica] Il contrappasso
I suicidi trasformati in piante, forma di vita inferiore, perché essi hanno rifiutato la loro condizione umana uccidendosi: perciò (per analogia) non sono degni di avere il loro corpo. Perfino dopo il giudizio universale essi saranno i soli a non rientrare nel proprio corpo, ma lo trascineranno e lo appendereanno ai loro rami. La questione del sangue e delle ferite è solo un accrescimento della pena o semmai va intesa come il fatto che essi, che versarono il proprio sangue, ora lo vedono versato per l'azione altrui.
Per gli scialacquatori, che distrussero le proprie sostanze, adesso vengono fatti a pezzi a brano a brano da cagne fameliche.
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