Ultime lettere di Jacopo Ortis
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Le Ultime lettere di Jacopo Ortis è un romanzo epistolare di Ugo Foscolo in cui sono raccolte le lettere che Jacopo avrebbe mandato all'amico Lorenzo Alderani che, dopo la morte dell'amico avvenuta per suicidio, le avrebbe date alla stampa corredandole di una presentazione e di una conclusione.
L'idea dell'opera risale al 1796 quando il Foscolo, nel suo Piano di studi dove tentava di dare una sistemazione organica alla sua cultura, nominava un romanzo dal titolo "Laura, lettere" che si ispirava al suo amore per Isabella Teotochi Albrizzi.
Il primo Ortis vide l'inizio della pubblicazione a Bologna nel 1798 ma venne interrotto a causa della guerra contro gli Austro-russi alla quale il Foscolo partecipò. L'editore volle che l'opera venisse completata e la affidò ad un certo Angelo Sassoli facendola poi pubblicare nel 1799 cambiando il titolo con "Vera storia di due amanti infelici" e modificandone alcune parti sia per farla accettare al grosso pubblico, sia per evitare il sequestro della censura.
Nel 1802 il Foscolo, dopo aver sconfessato l'edizione del Sassoli, riprende l'opera e la pubblica a Milano.
In seguito il romanzo veniva stampato prima a Zurigo nel 1816 con l'aggiunta di una lettera polemica contro Napoleone, alcune modifiche più che altro di forma e una interessante "Notizia bibliografica" e in seguito a Londra nel 1817 .
Il romanzo si ispira alla doppia delusione avuta dal Foscolo nell'amore per Isabella Roncioni che gli fu impossibile sposare e per la patria, ceduta da Napoleone all'Austria in seguito al trattato di Campoformio.
Il romanzo ha, quindi, chiari riferimenti autobiografici. Nella forma e nei contenuti è molto simile a I dolori del giovane Werther di Goethe; per questo motivo alcuni critici hanno addirittura definito il romanzo una brutta imitazione del Werther.
Indice |
[modifica] Trama
Jacopo Ortis, il cui nome è nelle liste di proscrizione, dopo aver assistito al sacrificio della sua patria si ritira, triste e inconsolabile, sui colli Euganei dove vive in solitudine, trattenendosi a volte con il curato, con il medico e con altre persone buone e leggendo ad essi e ai contadini che si affollano intorno a lui le "Vite" di Plutarco.
Jacopo conosce il signor T., Odoardo, e poi Teresa e la sua piccola sorella Isabellina e ne comincia a frequentare la casa. È questa, per Jacopo, che è sempre tormentato dal pensiero della sua patria schiava e infelice, una delle poche consolazioni.
Un giorno di festa aiuta i contadini a trapiantare i pini sul monte, commosso e pieno di malinconia, un altro giorno con Teresa e i suoi visita il sepolcro del Petrarca ad Arquà. I giorni trascorrono e Jacopo sente che il suo amore impossibile per Teresa diventa sempre più grande.
Jacopo viene a sapere dalla stessa Teresa che essa è infelice perché non ama Odoardo al quale il padre l'ha promessa in sposa per calcolo, malgrado l'opposizione della madre che ha per ciò abbandonato la famiglia.
Ai primi di dicembre Jacopo si reca a Padova, dove si è riaperta l'Università. Conosce le dame del bel mondo, trova i falsi amici, s'annoia, si tormenta e, dopo due mesi, ritorna da Teresa.
Odoardo è partito ed egli riprende i dolci colloqui con Teresa e sente che solo lei, se lo potesse sposare, potrebbe dargli la felicità. Ma il destino ha scritto: "l'uomo sarà infelice" e questo Jacopo ripete tracciando la storia di Lauretta, una fanciulla infelice, nelle cui braccia è morto il fidanzato ed i suoi hanno dovuto fuggire dalla patria.
I giorni passano nella contemplazione degli spettacoli della natura e nell'amore per Teresa e la prima volta che lei lo bacia è felice. Sente che lontano da lei è come essere in una tomba ed invoca l'aiuto della divinità. Si ammala e, al padre di Teresa che lo va a trovare, rivela il suo amore per la figlia.
Appena può lasciare il letto scrive una lettera d'addio a Teresa e parte. Si reca a Ferrara, Bologna, Firenze, Milano, portandosi sempre dietro l'immagine di Teresa e sentendosi sempre più infelice e disperato.
Vorrebbe fare qualcosa per la sua infelice patria ma il Parini, con il quale ha un ardente colloquio, lo dissuade da inutili atti d'audacia.
Inquieto e senza pace decide di andare in Francia ma, arrivato a Nizza, si pente e ritorna indietro.
Quando viene a sapere che Teresa si è sposata sente che per lui la vita non ha più senso. Ritorna ai colli Euganei per rivedere Teresa, va a Venezia per riabbracciare la madre, poi ancora ai colli e qui, dopo aver scritto una lettera a Teresa e l'ultima all'amico Lorenzo Alderani, si uccide, piantandosi un pugnale nel cuore.
[modifica] Commento
«Il sacrificio della patria nostra è consumato.»
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Questo l’incipit delle "Ultime lettere di Jacopo Ortis", un inizio capace di condensare quella convinzione definitiva che l’autore proietta nel proprio individuo letterario, l’Ortis per l’appunto. Nel domandarsi il perché di una così pesante sentenza che conduce inevitabilmente ad una vita fatta di estenuanti sciagure fino alla inevitabile autosoppressione e a dove si trova la speranza del rinsavimento e del riscatto, bisogna ricordare che Ugo Foscolo è figlio del Settecento, perciò il razionalismo borghese e dunque il materialismo divengono assi portanti della sua educazione alla vita.
Se a questa componente si aggiunge la nascita greca dello scrittore, che ha sicuramente aiutato in lui la nascita di una componente di classicismo messianico, quasi fosse un novello Enea in viaggio verso l’Italia frammentata, quale paese da unificare e patria da creare, ci troviamo di fronte ad un accesa disputa storico-esistenziale che anima gli eroici intenti di Foscolo e che egli di fatto trasmette al personaggio Jacopo Ortis.
Più che l’edificazione di un protagonista questa scrittura pare piuttosto la presa convinta di uno pseudonimo, una enunciazione in prima persona di un'intima visione della propria vicenda personale. Infatti galeotto fu quel famigerato "Trattato di Campoformio" che tradì le speranze libertarie di Foscolo, il quale aveva investito addirittura il proprio giacimento letterario nei confronti del confidato liberatore, quel Napoleone Bonaparte cantato nell’ode "A Bonaparte liberatore", resosi autore di un autentico delitto storico nei confronti dei veneti, tra i quali lo scrittore di Zante.
L’Ortis è dunque il Foscolo deluso, che dopo aver subito la beffa, si sente condannato al vagabondaggio nell’Italia ferita e assoggettata più ad un proprio servilismo che alla dominazione straniera.
Eloquente da questo punto di vista è il passo riguardante il problema della classe dirigente del Belpaese, responsabile secondo l’Ortis di un "infame perpetuo servaggio", da cui egli dichiara di essere fuori, anzi, se potesse esprimersi liberamente potrebbe azzardare una ricetta per l’Italia, quella di abbandonare la Francia e il proprio sanguinoso giacobinismo, che ha soltanto accumulato vittime in nome di una finta libertà.
Questo passo è stato aggiunto da Foscolo al corpus dell’Ortis soltanto nell’edizione zurighese del 1816. È importante notare come questo epistolario venga rieditato più volte dal proprio autore, prendendo una forma definitiva solo nell’edizione londinese del 1817.
Non si tratta di un fatto fine a sé stesso, il Foscolo adopera l’Ortis come un diario della propria delusione, e lo riprende in grembo ogni qualvolta vuole sopprimere questo continuo sconforto. Infatti l’Ortis muore suicida, mentre il Foscolo continua a vivere, un esorcismo del proprio nichilismo espresso solo attraverso le pagine dell’epistolario e non oltre. Infatti gli anni di pubblicazione di questo scritto saranno gli anni di una partecipazione critica dell’autore alla storia del proprio tempo.
Il colloquio con Parini rappresenta una altra chiave di volta del romanzo. In questo passo, infatti, nonostante la delusione per il tradimento napoleonico, l’Ortis mostra ancora un certo desiderio d’azione, esempio di un eroismo che serpeggia costante nella propria ambizione.
Ma il Parini, da vecchio saggio qual'è, a causa anche delle esperienze storiche che l’hanno penetrato, è abile a smontare questo foga del giovane rivoluzionario le cui parole "frutterà dal nostro sangue il vendicatore" paiono più come un grido d’illusa speranza che il preludio per un effettiva azione di lotta.
La validità di Parini è infatti quella di inficiare il mito dell’incontaminata purezza dell’eroe, che l’Ortis invece propugna, cavalcando sommamente gli ideali della Rivoluzione Francese. Quel leggendario fatto storico s’è ammutolito nel sangue del giacobinismo e nella dittatura napoleonica, sottolineando come la Rivoluzione ogni qualvolta vada al potere finisca per sfociare nella sanguinosa arbitrarietà della propria legge cieca.
In realtà L’Ortis è conscio del vicolo cieco in cui si ritrova il panorama politico italiano, e forse questo suo inno alla rivolta è dettato più da un fatto di abnegazione che dal concreto sposalizio con una giusta causa.
Tornando alla tragica conclusione del romanzo, dove l’Ortis si uccide dopo la notizia delle nozze di Teresa, il suo impossibile amore borghese, quella che avrebbe dovuto - e qui il parallelismo col Werther di Goethe è fortissimo - sancire la pacificazione tra quell’uomo e la società del tempo attraverso il suo massimo esempio simbolico, cioè la famiglia, ci troviamo di fronte alla fatale soluzione che rappresenta più che un indirizzo lungo tutto il romanzo. La morte intesa come annullamento totale è la via d’uscita forzata per l’Ortis dal calvario della propria calamità.
Eppure il Foscolo non vuole tracciare una soluzione assoluta per il destino dell’eroe tragico, anzi il cammino dell’Ortis è più utile come autopsicanalisi per lo scrittore, il quale cerca di obbiettare le proprie tendenze al disfattismo mortale continuando ad operare, seppur criticamente, nell'aspro conflitto sociopolitico del proprio periodo.
Anche il tema della sepoltura non si presenta a senso unico nell’Ortis, ovvero glissato come nulla eterno e nient’altro. Infatti al di là del nichilismo totale, i due passi sulla "Sepoltura lacrimata" riescono a mostrare la morte come una forma di sopravvivenza, (fatto che poi Foscolo saprà palesare meglio nei Sepolcri), attraverso il legame con il mondo dei vivi e il loro affettuoso ricordo del defunto e soprattutto nel suo lato più fisico, nel legame con la terra, che l’individuo senza patria ha sognato in vita per molto tempo, e che ora, quasi in una forma di patto naturale col trapasso, lo risarcisce custodendo in eterno le proprie spoglie.
Questa strada, che assume i toni di rivalsa verso un'inerzia vitale, dunque una svalutazione della realtà che il nichilismo traccia inesorabilmente, pur venendo accarezzata nell’Ortis, non ne diviene il nucleo fondante, anzi il nulla eterno riprende presto il sopravvento contro codesto tentativo di rifusione. Saranno le produzioni future "I Sepolcri" su tutti a forgiarsi intorno a questa concezione della morte, più in stile con il proseguo tangibile della vita dello scrittore veneto.
L’importanza delle "Ultime lettere di Jacopo Ortis" nella storia della letteratura è notevole, tanto che questo romanzo epistolare diverrà un vero e proprio milieu per alcune importanti opere letterarie del XX secolo. In particolare il tema dell’eroe che sperimenta sulla propria pelle i drammi di una cocente delusione storica farà breccia tra i letterati formatisi nel crogiuolo delle rivoluzioni giovanili tra il ‘68 e il ‘77.
[modifica] Voci correlate
[modifica] Collegamenti esterni
- Approfondimento critico dell'opera
- Testo digitale dell'opera
- Concordanze delle Ultime Lettere di Jacopo Ortis
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