Ignazio Buttitta
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Ignazio Buttitta (Bagheria, 19 settembre 1899 - ivi 5 aprile 1997) è stato un poeta siciliano.
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[modifica] Il poeta "siciliano"
Tra i poeti contemporanei che hanno scelto di esprimersi in siciliano Buttitta è il più noto e il più conosciuto, sia in Sicilia che nel resto d'Italia. Non è un caso infatti che nel 1972 gli sia stato assegnato il Premio Viareggio per il volume Io faccio il poeta.
Tra i temi più ricorrenti quelli delle lotte contadine e della conservazione della propria cultura.
Forse la sua lirica più famosa è Lingua e dialetto, dove implora i siciliani affinché conservino la propria lingua. Molto signigicativi sono già i primi versi:
- Un populu
- mittìtilu a catina
- spugghiàtilu
- attuppàtici a vucca,
- è ancora riccu.
(traduzione)
- Un popolo
- mettetelo in catene
- spogliatelo
- tappategli la bocca,
- è ancora libero.
[modifica] Biografia
[modifica] Gli inizi
Ignazio Buttitta nacque a Bagheria, provincia di Palermo, il 19 settembre 1899 da una famiglia di commercianti (il padre, salumiere, aveva una bottega in prossimità della casa di Renato Guttuso) che gli consentì gli studi solo fino alle elematari. Nel 1916 fu richiamato alle armi e con i ragazzi del 99 partecipò alla difesa del Piave, episodio in cui maturò un profondo disgusto nei confronti della conflitto in corso.
Ritornato in sicilia nel 1918, due anni dopo riprese a lavorare nella bottega paterna, aderendo nel frattempo con convinzione alle idee socialiste di Filippo Turati. Attratto soprattutto dagli scritti storici e dagli aspetti sociali della poesia, incominciò a formarsi una cultura da autodidatta, e nel 1922 fondò nel paese natio il circolo culturale di "Filippo Turati", che fu animatore di una sommossa popolare contadina contro i dazi comunali che vide finire in carcere i rivoltosi più aggressivi.
[modifica] I primi versi e la guerra
Intanto cominciò a scrivere versi (in dialetto siciliano) che furono pubblicati nel volumetto Sintimintali, contenente circa quaranta liriche con prefazione di Giuseppe Pipitone Federico. Allargato il commercio paterno, conobbe in treno (mentre si recava a Messina) la sua futura sposa, una maestra elementare che gli diede quattro figli, di cui uno, Antonino, oggi insegna Antropologia alla Facoltà di Lettere dell'Università di Palermo, in qualità di studioso delle tradizioni popolari siciliane; l'altro Pietro Antonio, famoso giornalista e scrittore, morto nel 1994.
Nel 1928 pubblicò, sempre in dialetto, Marabedda, con la casa editrice "La Trazzera", definito "un lungo canto d'amore" da Giuseppe Giacalone che ne approfondì la personalità e l'opera. Usciva saltuariamente, anche grazie alla collaborazione di Buttitta, un giornale di poesia dialettale ma l'opposizione al fascismo costò alla casa editrice prima la censura e poi la chiusura definitiva.
Poco dopo Buttitta si trasferì a Milano, dove fece fortuna nel commercio grazie alla sua intelligenza, senza però trascurare la sua passione per la letteratura. La Seconda guerra mondiale lo costrinse però a rifugiarsi a Cologno Monzese dove spinto dalle sue idee aderì alla Resistenza partigiana, iscrivendosi alle Brigate Matteotti (socialiste) e combattendo il nazi-fascismo nel biennio 1944-1945: arrestato dai fascisti nel marzo del 1945, riuscì ad evitare la condanna a morte ed a tornare in Sicilia, dove però trovò la bottega saccheggiata.
[modifica] Il dopoguerra
Qualche tempo dopo, grazie all'aiuto di un industriale di pesce in scatola di Mazara del Vallo che gli fece credito, tornò a Milano dedicandosi sia al commercio che alla frequentazione di una piccola ma eccezionale colonia d'artisti e intellettuali siciliani: Elio Vittorini, Salvatore Quasimodo e Renato Guttuso, che firmeranno la prefazione e i disegni del suo primo libro importante: "Lu pani si chiama pani", finanziato dal Partito Comunista Italiano nel 1954.
In quest'opera egli si autodefinisce “Pueta e latru” perché passa fra la gente silenzioso e furtivo come un ladro e ne ruba i sentimenti (per esempio la nostalgia dell'emigrante per la propria terra), mettendovi dentro il miele della fantasia e percorrendo due filoni che sempre resteranno presenti nelle raccolte future: quello sentimentale e quello socialmente impegnato, quest'ultimo inteso inizialmente come satira antifascista e poi come denuncia realistica a partire da "A stragi di Purtedda" (1947), avvenuta per mano del bandito Giuliano, ma voluta dalla mafia (e, a suo dire, dalla Democrazia Cristiana) contro le rivendicazioni del PSI e del PCI.
Buttitta diventa così una specie di cantastorie e tra le sue più popolari poesie si ricorda "Lamentu d'una matri" del 1953 (inserita nella raccolta "Il poeta in piazza" del 1955), componimento ispirato alla morte del sindacalista Turiddu Carnivali (Salvatore Carnevale) di Sciaru, ucciso dalla mafia perché "lottava per dare pane e lavoro ai braccianti del suo paese" al grido "La terra è di cu la travagghia / pigghiati li banneri e li zappuna", versi che saranno tradotti da Salvatore Quasimodo.
[modifica] Ultimi anni
Servendosi dell'ottava siciliana in rima baciata, Buttitta riesce a trascinare le folle che assistono ai suoi recital in piazza senza nascondere la sua passione ideologica, che lo farà stare sempre attento ai "morti di fame", ovvero ai poveracci che vanno a morire in Belgio, a Martinelle: così nella poesia Lu trenu di lu suli (1963) s'ispira alla tragedia dei minatori italiani. Populista di sincera potenza, secondo la definizione che ne dà Gianfranco Contini, tra le sue altre opere ricordiamo "La peddi nova" (1963) ed "Io faccio il poeta" (1972), in cui afferma che "i dolori vecchi e nuovi della Sicilia, rinnovando i modi della lirica dialettale, con la convinzione che il poeta deve essere partecipe della lotta di tutti gli uomini per affrancarsi soprattutto della miseria", esattamente quello che aveva scritto nella poesia La povira genti, apparsa sul giornale del circolo Turati che nel finale così recita:
- Lu picciriddu scausu e diunu
- Orfanu e sulu senza aiutu alcunu
- Lu carzaratu misu a la prigiuni
- Pirchì à rubatu appena un guastiuni
- Chiddi ca nta lu munnu sunnu nenti…
- Eccu, o signuri, la povira genti.
(Traduzione)
- “Il bambino scalzo e digiuno
- Orfano e solo senza aiuto alcuno
- Il carcerato messo in prigione
- Perché ha rubato appena una forma di pane
- Quelli che nel mondo sono niente…
- Ecco, signore, la povera gente”.
Nel 1972 la raccolta Io faccio il poeta gli fece vincere il premio Viareggio e le sue opere vennero tradotte in francese, in russo, in greco, mentre il patriarca, come viene soprannominato, fa un'esperienza narrativa nella raccolta "La paglia bruciata", racconti in versi italiani e siciliani in cui traccia una propria autobiografia. La dignità del suo registro linguistico e l'amore per il dialetto non venne mai meno come afferma orgogliosamente nella poesia "Lingua e dialettu", dove sostiene "a un populu tagghiataci la lingua" come espressione di libertà e di consapevolezza.
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