Simon Boccanegra
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Simon Boccanegra | |
Lingua originale: | italiano |
Musica: | Giuseppe Verdi |
Libretto: | Francesco Maria Piave e (seconda versione) Arrigo Boito (libretto online) |
Fonti letterarie: | Simón Bocanegra di Antonio García Gutiérrez |
Atti: | un prologo e tre atti |
Prima rappresentazione: | 12 marzo 1857 |
Teatro: | Teatro La Fenice di Venezia |
Versioni successive:
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Personaggi:
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Simon Boccanegra è un'opera di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dal romanzo Simón Bocanegra di Antonio García Gutiérrez. La prima ebbe luogo il 12 marzo 1857 al Teatro La Fenice di Venezia.
Oltre vent'anni dopo, Verdi rimaneggiò profondamente la partitura. Le modifiche al libretto furono effettuate da Arrigo Boito, il futuro librettista di Otello e Falstaff. La nuova e definitiva versione andò in scena il 24 marzo 1881 al Teatro alla Scala di Milano.
Indice |
[modifica] Genesi
All'inizio del 1856 la direzione del teatro La Fenice propose a Verdi di scrivere un'opera nuova, ma il musicista rifiutò, essendo già impegnato in altri progetti (la composizione del mai realizzato Re Lear e i rifacimenti di Stiffelio e della Battaglia di Legnano) e trovandosi già in trattative con il San Carlo di Napoli e La Pergola di Firenze.
L'anno successivo il librettista Francesco Maria Piave gli rinnovò la proposta e a maggio Verdi, sospese le trattative con gli altri teatri e abbandonato il progetto di musicare Re Lear, firmò il contratto con il teatro veneziano.
Il soggetto della nuova opera è tratto, come quello del Trovatore, da un dramma di Gutiérrez, mai pubblicato in italiano, nel quale si narra la storia di Simone Boccanegra, il corsaro genovese che nel Trecento riuscì a salire al trono dogale grazie all'appoggio di un amico e che al termine di una vita funestata da tragici eventi – la morte della donna segretamente amata, appartenente a una famiglia patrizia, e la scomparsa della figlia – morì avvelenato da quello stesso amico.
Quest'oscuro dramma privato sullo sfondo di una guerra civile attirò immediatamente Verdi che, come in altre occasioni, stese personalmente un libretto in prosa affidandone la versificazione a Piave. Inoltre, all'insaputa del suo librettista, Verdi si rivolse per la versificazione di alcuni passi a Giuseppe Montanelli, un poeta e patriota toscano in esilio a Parigi per aver partecipato al governo rivoluzionario del 1849. Il musicista rispedì il testo ultimato a Piave, accompagnandolo con queste asciutte parole:
Eccoti il libretto accorciato e ridotto presso a poco come deve essere. Come ti dissi in altra mia, tu devi mettere o no il tuo nome. Se quanto è avvenuto ti spiace, a me spiace pure, e forse più di te, ma non posso dirti altro che «era una necessità».
Nonostante gli aggiustamenti il libretto di Simon Boccanegra fu oggetto di forti critiche: un musicologo del tempo, Abramo Basevi, affermò di averlo dovuto leggere sei volte prima di riuscire a venirne a capo.
Terminata la stesura dell'opera in abbozzo nella sua villa di Sant'Agata, il 18 gennaio 1857 Verdi si trasferì a Venezia per completare la strumentazione, assistere alle prove e curare la messinscena. La première ebbe luogo il 12 marzo: i ruoli principali furono affidati a cantanti di rango – Leone Gilardoni (Simone), Luigia Bendazzi (Amelia), Carlo Negrini (Gabriele) e Giuseppe Echeverria (Fiesco) – ma la serata deluse le aspettative di Verdi:
Jeri sera cominciarono i guai: vi fu la prima recita del Boccanegra che ha fatto fiasco quasi altrettanto grande che quello della Traviata. Credeva di aver fatto qualche cosa di passabile ma pare che mi sia sbagliato. Vedremo in seguito chi avrà torto.
Ma l'esito non cambiò nel corso delle sei repliche e l'opera non riuscì ad affermarsi stabilmente in repertorio. A contribuire al sostanziale insuccesso della prima versione di Simon Boccanegra furono certamente l'intreccio oltremodo complicato e la tinta eccessivamente uniforme della partitura musicale, povera di squarci lirici e appesantita dall'impiego massiccio del canto declamato.
[modifica] La seconda versione
Nel 1868 l'editore Giulio Ricordi suggerì di realizzare una revisione della partitura, giacente da tempo nei suoi magazzini; ma il musicista rifiutò affermando che mancavano i cantanti adatti e che l'opera era «triste e di affetto monotono». Ricordi però non si diede per vinto e una decina d'anni più tardi spedì a Verdi un grosso pacco contenente la partitura da rivedere. Anche in questo caso la risposta del compositore fu secca e, all'apparenza, definitiva: «Se verrete a S. Agata di qui a sei mesi, un anno due, tre, ecc, la troverete intatta come me l'avete mandata. Vi dissi a Genova che io detesto le cose inutili.»
Nell'autunno del 1879 prese il via la grande azione diplomatica che portò Verdi a tornare al teatro, dopo il lungo silenzio seguito ad Aida: durante una cena, Ricordi fece cadere il discorso su Shakespeare e Otello, di cui Arrigo Boito aveva già preparato un'ipotesi di riduzione librettistica, notando in Verdi un certo interesse. L'indomani Boito presentò al compositore il suo lavoro, Verdi lo esanimò e lo trovò eccellente. Iniziò così una delle collaborazioni più felici della storia del teatro d'opera. Fra il giovane letterato, intelligente, colto e aggiornatissimo, e l'anziano musicista, che per tornare alle scene aveva bisogno soprattutto di uno sprone convincente, nacque uno straordinario rapporto di lavoro e di amicizia destinato a dare ottimi frutti. Il primo fu appunto la revisione di Simon Boccanegra.
Dal punto di vista musicale il rifacimento impegnò Verdi per quasi sei settimane, dall'inizio di gennaio alla terza settimana di febbraio del 1881. Ma già nel novembre 1880 il musicista aveva tracciato a grandi linee il piano di revisione. Originariamente suddivisa in quattro atti, l'opera venne ristrutturata in un prologo (l'antefatto del dramma: la tragica morte di Maria e l'elezione di Simone al trono dogale) e tre atti. Allo scopo di ravvivare il primo atto Verdi suggerì la citazione di due lettere di Francesco Petrarca, una scritta a Boccanegra, Doge di Genova, l'altra al Doge di Venezia. Alla fine la revisione comportò la sostituzione di un'intero quadro (il secondo dell'atto primo), il radicale mutamento del prologo, l'eliminazione del preludio (in luogo del quale Verdi compose una brevissima quanto memorabile introduzione strumentale), la sostituzione del duetto tra Gabriele e Fiesco (atto primo), la composizione di una nuova scena per il personaggio di Paolo (atto terzo) e inoltre un immenso numero di modifiche, tagli, ritocchi, inserzioni. In un tempo molto limitato e sotto la costante supervisione di Verdi - attestata dalle numerose lettere che i due si scambiarono durante il lavoro - Boito apportò le modifiche necessarie al vecchio libretto e avanzò personalmente alcuni validissimi suggerimenti. Per ovvie ragioni d'immagine (distinguere i nuovi versi dai vecchi sarebbe stato ben difficile) preferì tuttavia non firmare il libretto e mantenere l'anonimato.
Il nuovo Simon Boccanegra andò in scena il 24 marzo 1881, alla Scala di Milano, sotto la direzione del più grande direttore d'orchestra italiano di quegli anni: Franco Faccio. La compagnia di canto era composta da nomi di grande prestigio: Victor Maurel (Simone), Francesco Tamagno (Gabriele), Anna D'Angeri (Amelia), Edouard de Reszke (Fiesco). L'opera ottenne un buon successo. Dalla Disposizione scenica del nuovo Simon Boccanegra, pubblicata da Ricordi, possiamo ricavare molte notizie sull'allestimento scaligero, l'atteggiamento scenico del coro e degli interpreti, l'età dei personaggi e soprattutto conoscere il punto di vista di Verdi sulla realizzazione di uno spettacolo che gli stava molto a cuore e rappresentava per lui sia il recupero di un lavoro ingiustamente dimenticato che un ritorno in grande stile al palcoscenico.
Nonostante l'iniziale successo, il cammino del rinnovato Simon Boccanegra non fu agevole. Alla fine dell'Ottocento l'opera era nuovamente uscita di repertorio e il definitivo recupero fu merito della Verdi–Renaissance tedesca. Dal 1929 l'opera fu infatti inserita nei cartelloni dei maggiori teatri tedeschi con prestigiosi registi e interpreti, mentre nel 1932 trovò la sua consacrazione internazionale al Metropolitan di New York e negli anni successivi, sull'onda del trionfo americano, venne ripresa con successo in Italia: a Roma, Parma, Firenze, Bologna.
La ripresa della prima versione in forma di concerto, il 2 febbraio 2001 al Palafenice di Venezia (all'epoca la ricostruzione del Teatro La Fenice era ancora in corso), ha messo ancor meglio in evidenza i meriti della capillare revisione del 1881, certamente la più impegnativa, e insieme la più efficacie, alla quale Verdi abbia sottoposto una sua opera.
[modifica] Caratteri drammaturgici e stilistici
Alcuni giorni dopo l'andata in scena della seconda versione, scrivendo all'amico Opprandino Arrivabene, Verdi osservò che Simon Boccanegra è opera «triste perché dev'essere triste, ma interessa». Nel porre l'accento sulla caratteristica più evidente di quest'opera, la sua tinta scura e malinconica, questo lapidario giudizio solleva un interrogativo di fondo: quali ragioni hanno spinto Verdi a tornare su questa partitura a distanza di decenni, in un momento delicatissimo della sua carriera, per di più interrompendo la composizione di Otello? Le motivazioni sono molteplici e di diversa natura: se da un lato l'operazione si giustifica come una sorta di prova generale volta a saggiare, dopo tanti anni di silenzio, le reazioni del pubblico di fronte alla sua nuova musica, nell'attesa di proporre un'opera originale; dall'altro le parole del musicista lasciano intendere che quest'opera, nonostante l'insuccesso, era rimasta nel suo cuore. Si racconta che Verdi abbia in seguito confidato al nipote Carrara di aver voluto bene al Simon Boccanegra «come si vuol bene al figlio gobbo.»
Simon Boccanegra è una di quelle partiture verdiane – come Macbeth e Don Carlos – che, al di là del loro valore artistico, difficilmente avrebbero potuto aver accesso alla popolarità nel corso dell'Ottocento, in quanto il suo soggetto non ruota intorno ad una grande storia d'amore o ad un infiammato dramma di popoli in lotta per la libertà.
Incentrato su un tema ricorrente nel teatro verdiano - la crisi di un sistema di potere e di affetti familiari - Simon Boccanegra finisce infatti per capovolgere i convenzionali rapporti di forza tra i personaggi: non solo il protagonista è il baritono, ma il suo vero antagonista non è il tenore (l'innamorato giovane e romantico) bensì il basso, mentre la donna contesa non è l'amante, bensì la figlia dell'uno (Simone) e la nipote dell'altro (Fiesco). Il cuore dell'opera è rappresentato da un'intreccio fatale di odii atavici e fraintendimenti, in una cronica impossibilità di intendersi e comunicare. Le passioni torbide e irrisolte che animano quest'opera buia, complessa e tormentata, sono destinate a sciogliersi solo dopo che l'inesorabile trascorrere del tempo ne ha levigato l'asprezza, ovvero con l'approssimarsi della morte. Tra il prologo e i tre atti trascorrono ben venticinque anni, ed è suggestivo raffrontare questo scarto temporale con il lasso di tempo - ventiquattro anni: dal 1857 al 1881 - che separò nella realtà la nascita delle due versioni: si direbbe che lo stesso Verdi, per trovare il vero senso di questo dramma, abbia avuto bisogno di riconsiderarlo con uno sguardo retrospettivo, quello stesso sguardo che domina l'atto conclusivo dell'opera e lo rende così umanamente struggente.
Se dal punto di vista drammaturgico la modifica più importante introdotta dalla versione 1881 riguarda il quadro che chiude il primo atto, composto ex novo e destinato a diventare la scena più intensa e spettacolare dell'opera, sul piano poetico appaiono non meno determinanti i cambiamenti alla prima parte del prologo e, in particolare, l'aggiunta di quel breve ma straordinario preludio il cui motivo principale – «una cellula drammatico–narrativa a vite perpetua», come la definisce Massimo Mila – sembra far scaturire il dramma dalle brume della memoria, dando piena evidenza musicale all'idea fondamentale del trascorrere del tempo.
Il colore complessivamente severo deriva sia dal largo impiego di uno stile vocale tra il declamato e l'arioso (quanto a dire dall'assenza di motivi orecchiabili: a nessuna delle arie è toccato in sorte di entrare a pieno titolo nel repertorio concertistico), sia dal predominio delle voci gravi e virili (Simone, Fiesco, ma anche i congiurati Paolo e Pietro, e lo stesso coro, per lo più maschile), cui si contrappone una sola voce femminile: quella luminosa e calda del soprano lirico che interpreta il ruolo di Amelia, la giovane donna tenera e gentile, coinvolta suo malgrado nel dramma esistenziale e politico degli uomini che l'amano e ne fanno oggetto delle loro contese.
Il protagonista, un plebeo dall'animo nobile provato in gioventù da un atroce dolore, canta nel registro vocale più caro a Verdi, quello di baritono. Il suo nemico, l'inesorabile patrizio Jacopo Fieschi - una figura di padre-padrone ricorrente spesso nel teatro verdiano, da Zaccaria (Nabucco) a Rigoletto, da Giorgio Germont (La traviata) ad Amonasro (Aida), da Filippo II (Don Carlos) al Marchese di Calatrava (La forza del destino) - in quello di basso.
Più sullo sfondo si staglia la coppia degli innamorati, costituita da Amelia e Gabriele Adorno, il giovane patrizio dall'animo ardente ma leale (tenore). La loro limpida storia d'amore ha la funzione di creare un contrasto con le torbide, inespresse passioni, incancrenite dal tempo, che tormentano gli animi dei due antagonisti, segnalando in tal modo la distanza generazionale che sussiste fra i due mondi. Quest'opera cupa e triste si conclude infatti con un lutto compensato dalla promessa di un tempo migliore e con un messaggio di pace e d'amore: simile ad un passaggio di testimone, la morte di Simone coincide con la promessa di nozze degli innamorati e con l'elezione a Doge di Gabriele, cosicché il momento della riconciliazione nasce catarticamente da quello della sofferenza.
Illuminante per comprendere il senso del lungo travaglio e dell'inutile odio che distrugge la vita di Simone e di Fiesco è il peso che Paolo Albiani, il congiurato (un altro baritono) viene ad assumere per effetto della revisione 1881, soprattutto sotto la spinta di Boito, fatalmente attratto verso personaggi mefistofelici. Non è un caso che proprio la condanna a morte di Paolo, il simbolo stesso del male, e la sua definitiva uscita di scena preceda immediatamente il grande duetto della riconciliazione.
Musicalmente la partitura risente inevitabilmente degli anni che trascorrono tra la prima e la seconda versione e delle esperienze umane ed artistiche del suo autore. Le parti nuove sono facilmente riconoscibili e presentano una finezza di scrittura ed una brillantezza ritmica e timbrica lontane dallo stile disadorno e un po' monocorde dell'opera del 1857. La tinta ombrosa che caratterizza la prima versione permane anche nella seconda, ma attraversata da lampi sinistri che, nella terribile scena della maledizione che chiude il primo atto, arrivano a coagularsi in effetti espressionisti.
Opera avara di grandi arie, Simon Boccanegra si fa invece apprezzare per una straordinaria aderenza della musica al dramma, già riscontrabile nella versione originale ma notevolmente accresciuta dalla revisione, che elimina i brani più convenzionali e trasforma alcuni recitativi in moderni declamati melodici. Unica pecca dell'opera – è stato detto – è la presenza di un secondo atto che, per ragioni di struttura narrativa, Verdi non ha potuto rielaborare se non in minima parte e che, nella sua brevità, schiacciato com'è tra la grandiosità della scena finale del primo atto e la commovente tragicità del terzo, ha quasi l'aspetto di una parentesi e di un ritorno al Verdi più convenzionale. Ma anche qui, la qualità della musica e la sintesi drammatica sono tali da giustificare la piena riabilitazione che la critica ha ormai accordato a questa partitura intensa e sottile, che, tra le altre cose, ha il merito di offrirci uno dei ritratti più autentici dell'uomo Verdi: pessimista, scuro ma – come la sua opera – sempre umano e profondo.
[modifica] Personaggi
- Simon Boccanegra, corsaro al servizio della Repubblica genovese; poi primo Doge di Genova (baritono)
- Jacopo Fiesco, nobile genovese; poi sotto il nome di Andrea Grimaldi (basso)
- Maria Boccanegra, figlia di Simone, sotto il nome di Amelia Grimaldi (soprano)
- Gabriele Adorno, gentiluomo genovese (tenore)
- Paolo Albiani, filatore d'oro, genovese; poi primo Doge di Genova; poi cortigiano favorito del Doge (baritono)
- Pietro, popolano di Genova; poi cortigiano (baritono)
- Capitano dei balestrieri (tenore)
- Un'Ancella di Amelia
[modifica] La trama
[modifica] Prologo
Una piazza di Genova – A destra il Palazzo dei Fieschi – È notte
È il 1339. Sta per essere eletto il nuovo Doge e in città fervono le lotte fra il partito plebeo, capeggiato dal popolano Paolo Albiani, e quello aristocratico legato al nobile Jacopo Fiesco.
Paolo confida al popolano Pietro di sostenere l'ascesa al trono dogale di Simone Boccanegra, un corsaro che ha reso grandi servigi alla repubblica genovese, e di attendersi in cambio potere e ricchezza. Giunge Simone, angosciato perché da molto tempo non ha più notizie di Maria, la donna amata che gli ha dato una figlia e che per questo è tenuta prigioniera nel palazzo gentilizio del padre Jacopo Fiesco. Paolo convince il riluttante Simone ad accettare la candidatura prospettandogli che, una volta eletto Doge, nessuno potrà più negargli le nozze con Maria. Pietro chiede al popolo di votare per Simone e avverte che dal palazzo dei Fieschi giungono dei lamenti di donna: forse è Maria, la fanciulla da tempo scomparsa *(L'atra magion vedete?). Tutti si allontano.
Jacopo Fiesco esce sconvolto dal palazzo: Maria è morta. Voci pietose intonano un Miserere (A te l' estremo addio). Sopraggiunge Simone e, ignaro di quanto è accaduto, supplica Fiesco di perdonarlo e concedergli Maria. Quando il patrizio gli pone come condizione la consegna della nipote, egli confessa che la bambina, da lui affidata ad un'anziana nutrice in un paese lontano, è da tempo misteriosamente scomparsa. Svanita ogni speranza di riappacificazione, Fiesco finge di allontanarsi ma di nascosto osserva Simone, che entra nel palazzo in cerca della prigioniera. Dall'interno dell'edificio giunge un grido disperato: «Maria!» e proprio in quel momento il popolo acclama Boccanegra nuovo Doge.
Tra il Prologo e il primo atto trascorrono venticinque anni e accadono molte cose: il Doge ha esiliato i capi degli aristocratici, confiscandone le proprietà, e Fiesco, per sfuggirgli, vive in esilio in un palazzo fuori Genova, sotto il nome di Andrea Grimaldi, insieme ad una fanciulla – Amelia – che ha raccolto bambina nel convento in cui era appena morta la vera figlia dei Grimaldi e che, all'insaputa di tutti, altri non è che la figlia di Maria e Simone. Amelia ama riamata un giovane patrizio, Gabriele Adorno che, essendo l'unico a sapere che Jacopo e Andrea sono la stessa persona, congiura con lui contro il Doge plebeo.
[modifica] Atto primo
[modifica] Quadro primo
Giardino dei Grimaldi fuori Genova.
Amelia attende Gabriele in riva al mare, immersa nei confusi ricordi della sua fanciullezza (Come in quest'ora bruna), e quando il giovane la raggiunge lo supplica di non partecipare alla cospirazione contro Simone (Vieni a mirar la cerula).
Pietro annuncia l'arrivo del Doge e Amelia, temendo che egli venga a chiederla in sposa per il suo favorito, Paolo Albiani, supplica Gabriele di prevenirlo affrettando le nozze. Rimasto solo con Gabriele, Andrea Grimaldi (ossia Fiesco) gli rivela che Amelia è in realtà un'orfanella cui ha dato il suo nome e lo benedice.
Squilli di trombe annunciano l'entrata del Doge, che porge ad Amelia un foglio: è la concessione della grazia ai Grimaldi. La fanciulla, commossa, gli apre il suo cuore confessandogli di amare un giovane aristocratico e di essere insidiata dal perfido Paolo, che aspira alle sue ricchezze. Infine gli rivela di essere orfana (Orfanella il tetto umile). Simone la incalza con le sue domande e confronta un suo medaglione con quello che la fanciulla porta al collo: entrambi recano l'immagine di Maria! Padre e figlia si abbracciano felici.
Al ritorno di Paolo, Simone gli ordina di rinunciare ad Amelia e il perfido uomo, per vendicarsi, organizza per la prossima notte il rapimento di Amelia.
[modifica] Quadro secondo
Sala del Consiglio nel Palazzo degli Abati.
Il Senato si è riunito e il Doge chiede il parere dei suoi consiglieri: egli desidera la pace con Venezia ma Paolo e i suoi chiedono la guerra. Dalla piazza giungono i clamori di un tumulto e, affacciandosi al balcone, Simone scorge Gabriele Adorno inseguito dai plebei. Pietro, temendo che il rapimento di Amelia sia stato scoperto, incita Paolo a fuggire, ma il Doge lo precede ordinando che tutte le porte siano chiuse: chiunque fuggirà sarà dichiarato traditore. Poi, incurante delle grida di «Morte al Doge!», fa entrare il popolo. La folla irrompe trascinando Fiesco e Gabriele, che confessa di aver ucciso l'usuraio Lorenzino, l'uomo che ha rapito Amelia per ordine di un «uom possente» del quale non ha fatto in tempo a svelare il nome; poi, ritenendolo responsabile del rapimento, si slancia su Simone per colpirlo. Sopraggiunge Amelia, si pone fra i due e supplica il padre di salvare Adorno, raccontando di essere stata rapita da tre sgherri, di essere svenuta e di essersi ritrovata nella casa di Lorenzino. Poi, «fissando Paolo», dice di poter riconoscere il vile mandante del rapimento. Scoppia un tumulto, patrizi e plebei si accusano a vicenda, Simone rivolge all'Assemblea e al popolo un accorato discorso, invocando pace e amore per tutti (Plebe! Patrizi! Popolo...). Gabriele gli consegna la spada ma il Doge la rifiuta e lo invita a rimanere agli arresti a palazzo finché l'intrigo non sia svelato. Si rivolge quindi a Paolo, di cui ha intuito la colpevolezza, e lo invita a maledire pubblicamente il traditore infame che si nasconde nella sala. Paolo, inorridito, è in tal modo costretto a maledire sé stesso.
[modifica] Atto secondo
Stanza del Doge nel Palazzo Ducale di Genova.
Paolo, bandito da Genova, chiede a Pietro di condurre da lui i due prigionieri, Gabriele e Fiesco, e versa una fiala di veleno nella tazza di Simone. Non contento, egli chiede a Fiesco, l'organizzatore confesso della rivolta, di assassinare il Doge nel sonno e, davanti al suo sdegnato rifiuto, lo fa riportare in cella e insinua in Gabriele il sospetto che Amelia si trovi in balia delle turpi attenzioni di Simone (Sento avvampar nell'anima). Quando giunge Amelia, il giovane l'accusa di tradimento con il Doge, di cui uno squillo di tromba annuncia l'arrivo. Gabriele si nasconde, Amelia in lacrime confessa al padre di amare l'Adorno e lo supplica di salvarlo. Simone, combattuto fra i doveri della sua carica e il sentimento paterno, la congeda. Beve quindi un sorso dalla tazza, notando che l'acqua ha un sapore amaro, e si assopisce. Gabriele esce dal suo nascondiglio e si slancia contro di lui per colpirlo, ma ancora una volta Amelia glielo impedisce. È il momento della rivelazione: il Doge si risveglia, ha un violento scontro verbale con Gabriele, che l'accusa di avergli ucciso il padre, e infine gli svela che Amelia è sua figlia.
Il giovane implora Amelia di perdonarlo e offre al Doge la sua vita (Perdon, perdono Amelia). Di fuori giungono rumori di tumulti e voci concitate: i cospiratori stanno assalendo il Palazzo. In segno di riconciliazione il Doge incarica Gabriele di comunicare loro le sue proposte di pace e gli concede la mano di Amelia.
[modifica] Atto terzo
Interno del Palazzo Ducale.
La rivolta è fallita, il Doge ha concesso la libertà ai capi ribelli, solo Paolo è stato condannanto a morte. Mentre sta per andare al patibolo egli rivela a Fiesco di aver fatto bere a Simone un veleno che lo sta lentamente uccidendo e ascolta con orrore le voci che inneggiano alle future nozze di Amelia e Gabriele.
Giunge il Boccanegra e cerca refrigerio al malessere che già lo pervade respirando sul balcone l'aria del mare. All'improvviso gli si avvicina Fiesco e gli annuncia che la sua morte è vicina (Delle faci festanti al barlume): da quella voce inesorabile Simone riconosce l'antico nemico e, con un gesto magnanimo, gli rivela che Amelia è la figlia di Maria. La commozione invade l'animo del vecchio patrizio, che troppo tardi comprende l'inutilità del suo odio. Un abbraccio pone fine alla lunga guerra, poi Fiesco avverte Simone che un traditore lo ha avvelenato. Quando il corteo degli sposi torna dalla chiesa Simone invita la figlia a riconoscere in Fiesco il nonno materno, benedice la giovane coppia (Gran Dio li benedici) e muore dopo aver proclamato Gabriele nuovo Doge di Genova.
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