Nitto Santapaola
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Benedetto Santapaola (Catania, 4 giugno 1938), detto Nitto e soprannominato il cacciatore o il licantropo, è stato condannato più volte come uno tra i più importanti boss mafiosi della Sicilia.
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[modifica] La scalata al potere
[modifica] Gioventù
Nitto Santapaola nasce nel quartiere di San Cristoforo da una famiglia povera. È affetto da diabete e da alcuni disturbi che (si dice) siano dovuti ad una rara forma di licantropia clinica: da qui il soprannome il licantropo. Frequenta una scuola salesiana, ma si ritira presto dedicandosi alle rapine. Ufficialmente, Santapaola prima della latitanza svolge vari lavori tra cui il venditore ambulante di generi ortofrutticoli, poi di scarpe e articoli da cucina e infine il titolare di una concessionaria di auto.
La prima denuncia risale al 1962, per furto e associazione a delinquere. Nel 1970 gli è imposto il soggiorno obbligato, nel 1975 viene denunciato per contrabbando di sigarette. L'8 settembre 1978 riesce ad eliminare Giuseppe Calderone, il boss più importante di Catania, e dà un chiaro segnale di voler puntare al comando di Cosa Nostra nel capoluogo etneo.[1]
[modifica] L'omicidio Lipari
Il 13 agosto 1980 Vito Lipari, sindaco di Castelvetrano, viene trovato ucciso. Casualmente, un'auto con quattro persone a bordo viene fermata da una pattuglia di carabinieri: i viaggiatori sono Mariano Agate, Francesco Mangione, Rosario Romeo e Nitto Santapaola.
Santapaola e i suoi compagni di viaggio non vengono neanche sottoposti al guanto di paraffina perché egli stesso dichiara di essere stato ad una battuta di caccia a casa di un amico. Il capitano Vincenzo Melito va anche a Catania per verificare gli alibi, e al suo ritorno i quattro vengono scarcerati. Nel 1984 viene svelata una parte dei fatti. Nell'interrogatorio sarebbe emerso che Santapaola era andato in provincia di Trapani per risolvere dei problemi che aveva l'imprenditore edile Gaetano Graci (l'amico di cui non era stato fatto il nome nel 1980), che aveva degli interessi nel trapanese, per conto di personaggi al di sopra di ogni sospetto:
Contemporaneamente Melito viene arrestato perché avrebbe avallato l'alibi di Santapaola in cambio di un'automobile, dopo aver parlato con questi personaggi al di sopra di ogni sospetto.[2]
Santapaola, alla fine, non può essere accusato e viene anche bocciata la proposta del soggiorno obbligato.[1] Si sarebbe scoperto, poi, che Lipari era stato ucciso perché aveva cercato di smascherare gli imbrogli che avvolgevano la ricostruzione della valle del Belice, dopo il terremoto del 1968.[3]
[modifica] La strage della circonvallazione
Il 16 giugno 1982 Alfio Ferlito, il principale avversario di Santapaola, viene ucciso con tre carabinieri, che lo stavano scortando in carcere da Enna a Trapani, nella cosiddetta strage della circonvallazione di Palermo. È la conclusione di una guerra di mafia che ha insanguinato per anni Catania.[4]
[modifica] La strage di via Carini
Il 3 settembre dello stesso anno Carlo Alberto Dalla Chiesa con la moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente Domenico Russè è vittima di un agguato dopo appena quattro mesi di servizio a Palermo: è la strage di via Carini. Santapaola è tra i principali indagati per gli omicidi e si dà alla latitanza.[1]
[modifica] La latitanza
[modifica] Il casinò di Campione
Nel 1982 le trame del clan di Nitto Santapaola si aprono verso il nord Italia. Il boss assume come rappresentante del gruppo imprenditoriale che si appoggiava a lui Ilario Legnaro, presidente della Pallacanestro Varese, a cui riesce a far assegnare in gestione il casinò di Campione d'Italia. Giovanni Brusca, in un interrogatorio del 7 maggio 2001, racconta che attraverso Legnaro Santapaola «riusciva a riciclare ingenti somme di denaro, nell'ordine di miliardi»[5].
[modifica] L'omicidio Fava
Il 5 gennaio 1984 Giuseppe Fava, giornalista fondatore della rivista I Siciliani, viene ucciso davanti al teatro Stabile in via dello Stadio a Catania. Il movente è inizialmente coperto da tutti. La procura indaga a 360°, il quotidiano La Sicilia parla di questioni di natura privata. La realtà è riassunta nella frase del Sottosegretario della Pubblica Istruzione durante l'ultimo governo Spadolini, Antonino Drago: bisogna «chiudere presto le indagini altrimenti i cavalieri se ne andranno».[6]
Chi sono i cavalieri? I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa, così definiti da Giuseppe Fava nella storica copertina del primo numero de I Siciliani del gennaio 1983, erano i cavalieri del lavoro che gestivano l'imprenditoria edile catanese (e siciliana) a cavallo degli anni settanta-ottanta: Mario Rendo, Carmelo Costanzo, Francesco Finocchiaro e Gaetano Graci.
I rapporti tra il clan di Santapaola e i cavalieri vengono fuori grazie al lavoro della redazione de I Siciliani. Nel primo articolo si fa solo l'accenno a «quello che appare, quello che la gente pensa e quello che probabilmente è vero»: appare che sono tutti inquisiti per reati anche gravi, si pensa che sono stati loro ad ordinare l'omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa e probabilmente c'è una mutua protezione ma non ci sono le prove.[4]
La collusione tra i cavalieri e la mafia viene ribadita nei processi degli anni novanta, tra cui quelli per l'omicidio Fava, soprattutto grazie alla scoperta di molte foto in cui Santapaola appariva in compagnia di vari esponenti del potere catanese: «il sindaco, il presidente della provincia, il questore, il prefetto, un deputato regionale dell'Antimafia, un segretario di partito, qualche giornalista, il rampollo di uno dei quattro cavalieri, il genero di un altro cavaliere...» Queste foto rimangono per anni nascoste, fin quando non vengono inviate al giudice Giovanni Falcone.[6]
Il processio si conclude solo 19 anni dopo, quando vengono condannati Maurizio Avola come esecutore, Nitto Santapaola come mandante e Aldo Ercolano come organizzatore. Vengono invece assolti Vincenzo Santapaola, Marcello D'Agata e Francesco Giammuso, i sicari che probabilmente avevano accompagnato Avola durante l'omicidio.[7]
[modifica] La strage di via D'Amelio
Il 19 luglio 1992 si verifica la strage di via D'Amelio, in cui perdono la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Emanuela Loi, Eddie Walter Cusina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli e Agostino Catalano. Santapaola è tra i boss che l'hanno organizzata, con Bernardo Provenzano e molti altri.[8]
Ancora oggi non si è fatta chiarezza su come venne organizzata la strage. La bomba era stata radiocomandata a distanza e addirittura il giudice aveva saputo di un carico di esplosivi arrivato a Palermo appositamente per lui. Inoltre l'agendina rossa di Borsellino non venne ritrovata: probabilmente fu sottratta da qualche investigatore giunto tra i primi sul posto.
[modifica] L'omicidio Lizzio
Il 27 luglio 1992 l'ispettore capo di Catania Giuseppe Lizzio viene ucciso. Il collaboratore di giustizia Maurizio Avola parla di Maurizio Zuccaro, cognato di Santapaola, come uno tra i principali killer.[9] In quest'occasione, Avola racconta che Lizzio fu ucciso a malincuore, poiché il boss non voleva la guerra con i carabinieri che definiva sempre "educatissimi ragazzi".[10]
[modifica] La cattura
Il 18 maggio 1993 viene arrestato nelle campagne di Mazzarrone nell'ambito dell'operazione Luna Piena. A tradirlo sono state le intercettazioni delle conversazioni tra i suoi figli.[1] I reggenti del clan Santapaola diventano Mario Tornabene e Natale D'Emanuele, a loro volta arrestati il 24 aprile e il 1 luglio 1995.[9]
[modifica] I pentiti
[modifica] Maurizio Avola
Nel 1994 il pentito Maurizio Avola, nipote di Nitto Santapaola autoaccusatosi di 70 omicidi, rivela che fu suo zio a progettare il delitto Fava nel 1984.
Le dichiarazioni di Avola toccano moltissimi ambiti. Il boss sarebbe stato contrario all'assassinio di Giovanni Falcone, poiché Santapaola non ha mai voluto combattere lo Stato, neanche uccidere un poliziotto a Catania. L'omicidio di Giuseppe Lizzio fu quindi un gesto compiuto a malincuore.
Lo stesso Avola parla anche di frequentazioni tra Santapaola ed alcuni noti personaggi del mondo delle istituzioni e della politica, come l'uomo dei servizi deviati, Saro Cattafi e Marcello Dell'Utri. In particolare, i rapporti tra Marcello Dell'Utri e il clan di Santapaola si sarebbero infittiti quando Nitto incaricò Aldo Ercolano di bruciare la sede della Standa di Catania. Dell'Utri era già in contatto con Totò Riina e il boss catanese voleva ottenere un rapporto autonomo con il manager di Publitalia. I due raggiunsero un accordo e Santapaola investì molti soldi nelle attività di Fininvest.
Avola parla anche di presunti rapporti tra mafia e massoneria: dichiara che «Tutti i capi mafia sono massoni». Il legame tra l'associazione e la mafia sarebbe stato necessario per stringere rapporti con i giudici corrotti e per pianificare gli investimenti. Anche Saro Cattafi era un massone e la sua presenza era un legame tra politica e mafia.[10] Tuttavia, sembra più corretto parlare di rapporti con settori deviati della stessa massoneria, dal momento che l'associazione è di per sé ostile al fenomeno mafioso e che gli ideali liberali e laici della massoneria restano oggettivamente incompatibili con le logiche proprie della mafia.
[modifica] Antonino Calderone
Nino Calderone, fratello del boss ucciso da Santapaola nel 1978, fu tra quelli che confermarono le ipotesi fatte da Pippo Fava: il cacciatore era il principale interlocutore dei politici, imprenditori (tra cui i cosiddetti quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa) e magistrati corrotti che controllavano Catania negli anni ottanta.[1]
[modifica] Le ritorsioni
L'1 settembre 1995 viene uccisa la moglie Carmela Minniti dal pentito (in semi-libertà) Giuseppe Ferone, che era un grande rivale del licantropo.[1]
[modifica] Le sentenze
Il 12 maggio 1995 riceve la prima condanna per associazione mafiosa a 18 mesi di isolamento diurno.[9]
È stato condannato all'ergastolo per la strage della circonvallazione.
È stato condannato in primo grado per la strage di via Carini. Il 17 marzo 1995 è stato assolto dalla Corte d'Assise d'Appello, ma è stato poi rimandato alla Corte di cassazione.[9]
Il 26 settembre 1997 viene condannato in primo grado all'ergastolo per la strage di Capaci.[1] La sentenza è confermata in appello il 7 aprile 2000. Tra gli altri condannati ci sono anche Provenzano, Riina e Bernardo Brusca.[11]
Nel 1998 viene chiuso il processo d'appello sulla morte di Giuseppe Fava: Santapaola viene condannato all'ergastolo insieme ad Aldo Ercolano.[12] Il 14 novembre 2003 la sentenza viene confermata dalla Cassazione.[7]
Il 9 dicembre 1999 si conclude a Caltanissetta il processo in primo grado Borsellino-ter: Santapaola viene condannato all'ergastolo con altri 17 capimafia. Tra di loro ci sono Giuseppe Madonia, Giuseppe Calò e Raffaele Ganci.[13] Il 7 febbraio 2002, in appello, la condanna gli viene ridotta a 20 anni.[8]
[modifica] Note
- ↑ 1,0 1,1 1,2 1,3 1,4 1,5 1,6 Benedetto Santapaola su In Memoria.
- ↑ Claudio Fava, Michele Gambino e Riccardo Orioles, Il mafioso, il capitano e il cavaliere su I Siciliani, novembre 1984.
- ↑ Mario La Ferla, La valle dei misteri su Antithesi.info, 30 novembre 2004.
- ↑ 4,0 4,1 Giuseppe Fava, I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa, su I Siciliani, gennaio 1983.
- ↑ Graziella Proto. Campione d'Italia. Non Puttanopoli ma riciclaggio. «Casablanca», luglio 2006, 9.
- ↑ 6,0 6,1 Sebastiano Gulisano, Giuseppe "Pippo" Fava, su Da Polizia e Democrazia, 2002.
- ↑ 7,0 7,1 Omicidio del giornalista Giuseppe Fava... su La Sicilia, 15 novembre 2003.
- ↑ 8,0 8,1 Delitti politici di mafia su Almanaccodeimisteri.info, febbraio 2002.
- ↑ 9,0 9,1 9,2 9,3 Cronologia sul Centro Siciliano di Documentazione "Giuseppe Impastato" - Onlus.
- ↑ 10,0 10,1 Nando Dalla Chiesa, Io, Dell'Utri e le stragi su Rifondazione-Cinecitta.org.
- ↑ Sintesi dei fatti più importanti su Almanaccodeimisteri.info, 1 gennaio 2000-10 giugno 2004.
- ↑ Daniele Biacchessi, Il caso Pippo Fava su Radio24.it.
- ↑ Omaggio a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino su Rai Educational, 7 giugno 2001.
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