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Battaglia di Montaperti

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Battaglia di Montaperti
Parte battaglia tra Guelfi e Ghibellini, Firenze e Siena
Data: 4 settembre 1260
Luogo: Montaperti (Castelnuovo Berardenga, SI)
Esito: vittoria senese
Schieramenti
Siena Firenze
Comandanti
Provenzano Salvani Iacopino Rangoni
Effettivi
4 divisioni (1.800 cavalieri e 18.000 fanti) 3.000 cavalieri e 30.000 fanti
Perdite
600 morti e 400 feriti 10.000 morti e 15.000 prigionieri
battaglie tra Guelfi e Ghibellini
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La battaglia di Montaperti si svolse a Montaperti (Siena) il 4 settembre 1260 tra Firenze e Siena.

[modifica] Antefatti

Dopo l'anno 1000, le città di Firenze e di Siena erano cresciute grazie alle attività mercantili e commerciali. I banchieri e i mercanti delle due città attraversavano l'Europa arricchendosi. Firenze era facilitata dalla via d'acqua dell'Arno, Siena dalla sua posizione lungo la via Francigena, percorsa dai numerosi pellegrini diretti a Roma e dai traffici che dalla città eterna si dirigevano verso il cuore del Sacro Romano Impero. Era lo sviluppo dell'era mercantile.

Ovviamente, gli interessi delle due città erano da tempo in conflitto, sia per questioni economiche che di pura egemonia sul territorio. Nella prima metà del XIII secolo, i confini fiorentini si spingevano a sud fin quasi a Siena.

La rivalità economica si traduceva in una rivalità politica. A Firenze avevano la supremazia i guelfi, che sostenevano la supremazia del Papa, mentre a Siena il partito predominante era quello ghibellino, alleato dell'Imperatore, in questo periodo il re di Sicilia Manfredi di Svevia, figlio naturale di Federico II.

Nel 1251 i senesi si erano legati ai ghibellini di Firenze in un patto di reciproca assistenza.

Nella guerra del 1255 Siena aveva avuto la peggio e aveva dovuto sottoscrivere un impegno a non ospitare alcun esiliato dalle città di Firenze, Montepulciano e Montalcino.

Il casus belli fu l'accoglienza data nel 1258 da Siena ai ghibellini di Firenze, esiliati dopo una tentata rivolta contro i guelfi al potere. Tra questi fuoriusciti ricordiamo il nome di Farinata degli Uberti, citato da Dante nella Divina Commedia(vedi X canto dell'inferno).

A questo esilio era seguito l'assassinio di Tesauro Beccharia, Arcivescovo di Vallombrosa, accusato di complottare con i ghibellini allo scopo di farli rientrare a Firenze.

All'inizio della nuova guerra, il teatro delle operazioni fu soprattutto la Maremma dove i guelfi riuscirono a fomentare rivolte dei comuni di Grosseto, Montiano, Montemassi. Quest'ultimo sarà nei secoli teatro di operazioni militari senesi, ricordate nel famoso affresco del Palazzo Pubblico, "Guidoriccio da Fogliano all'assedio di Montemassi" (l'assedio fu dovuto ad una nuova rivolta contro Siena nel 1328).

Nel 1259 Siena ottiene l'appoggio di re Manfredi, che fornì alcune compagnie di cavalieri tedeschi comandati dal Conte Giordano D'Anglano, cugino del Re di Napoli. L'offerta fu di cento cavalieri, e stava per essere ritenuta non adeguata dagli ambasciatori senesi. Ma questi, su consiglio di Farinata degli Uberti, accettarono. L'idea era che, una volta che le bandiere di re Manfredi fossero state coinvolte nello scontro, questi sarebbe stato costretto a inviare ulteriori rinforzi.

Nei primi mesi del 1260 le truppe tedesche piegano la resistenza dei comuni maremmani.

Questo suscitò la reazione della lega guelfa, guidata da Firenze, che fece muovere un esercito di trenta-trentacinquemila uomini a difesa dei comuni riconquistati dai ghibellini senesi. L'esercito guelfo si accampò alle porte di Siena, nei pressi di Santa Petronilla, nella zona nord vicina alla Porta Camollìa, attuando un assedio il 18 maggio. I cavalieri tedeschi e quelli senesi attaccarono l'accampamento nello stesso giorno e le operazioni si protrassero fino al 20 maggio. I cronisti delle due parti descrivono in modo diametralmente opposto l'esito dei combattimenti, a seconda dello schieramenti per cui parteggiavano.

Il 20 maggio i guelfi interrompono l'assedio e mentre una parte prosegue il cammino verso la Maremma, il grosso ritorna a Firenze.

Durante le operazioni del 18 maggio, tutti i cavalieri tedeschi furono uccisi e le insegne di re Manfredi trascinate nel fango dai fiorentini ed esposte al ludibrio pubblico nella città guelfa. Questo spinse re Manfredi ad inviare in luglio ulteriori e più consistenti aiuti a Siena, nel numero di ottocento cavalieri. Aiuti arrivarono da Pisa e dagli altri ghibellini toscani.

Questo dà ulteriore respiro ai senesi, che riconquistano Montepulciano e Montalcino, stazione strategica a sud, sulla via Francigena.

[modifica] La battaglia

La lega guelfa comprendeva, oltre a Firenze, Bologna, Prato, Lucca,Orvieto, San Gimignano, San Miniato, Volterra e Colle Val d'Elsa. Il suo esercito si muove di nuovo verso Siena, con la giustificazione della necessità di riconquistare Montepulciano e Montalcino. Per quanto consigliati altrimenti da Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, i comandanti fecero passare l'esercito alle porte di Siena anche perché desiderosi di rivalsa dopo la scaramuccia di maggio e si accampano nelle vicinanze del fiume Arbia, a Montaperti, il 2 settembre 1260. In tale giorno gli ambasciatori guelfi consegnarono un ultimatum al Consiglio dei Ventiquattro, il governo di Siena, che fu respinto, seppure con qualche incertezza di una parte favorevole alla trattativa.

Per meglio motivare i cavalieri tedeschi, fu deliberato di corrispondergli una doppia paga grazie ai fondi forniti da Salimbeno de' Salimbeni (la cui famiglia fonderà nel 1472 la banca Monte dei Paschi).

Le cronache indicano in trentamila fanti e tremila cavalieri le forze della lega guelfa. Le forze ghibelline ammontavano a ventimila unità, composte da ottomila fanti senesi, tremila pisani e duemila fanti di re Manfredi. A loro, si aggiungevano i fuorisciti fiorentini, i bonizzesi, nonostante in quel momento Poggiobonizio fosse occupato dai fiorentini, e i cavalieri tedeschi.

Nello stesso giorno, la città, in solenne processione guidata da Buonaguida Lucari, fu dedicata alla Madonna in cambio della sua protezione durante la battaglia. A quel tempo, nella Cattedrale di Siena era conservata sull'altare maggiore la Madonna dagli Occhi Grossi, attualmente esposta presso la Pinacoteca Nazionale di Siena.

Il 3 settembre l'esercito senese-ghibellino guidato da Provenzano Salvani uscì da Porta Pispini, diretto al Poggio delle Repole, in prossimità dell'accampamento guelfo, che si era spostato nel frattempo sul Poggio delle Cortine da dove poteva controllare i movimenti dei ghibellini. Una leggenda narra che i senesi fecero sfilare il proprio esercito per tre volte davanti all'esercito guelfo, cambiando ogni volta i vestiti con i colori dei terzi di Siena cercando di far credere che le proprie forze fossero tre volte più numerose di quello che fossero in realtà.

La mattina del 4 settembre l'esercito ghibellino, superato il fiume Arbia, si prepara alla battaglia. Era formato da quattro divisioni, che si posizionarono sul campo di battaglia così da tentare una manovra d'accerchiamento.

La prima divisione, guidata dal conte d'Arras, doveva attaccare i guelfi alle spalle al grido d'invocazione di San Giorgio. La seconda, guidata dal conte Giordano d'Anglano, e la terza, guidata dal senese Aldobrandino Aldobrandeschi, dovevano impegnare frontalmente l'esercito guelfo, nonostante il sole contrario e la pendenza del terreno. La quarta, comandata da Niccolò da Bigozzi, era posta a guardia del carroccio senese.

Un'altra delle leggende relative alla battaglia, ricorda la figura del cavaliere tedesco Gualtieri d'Astimbergh il quale, avendo il privilegio di attaccare per primo, dopo essersi avvicinato lentamente ai nemici, caricò lancia in resta il capitano dei lucchesi che fu trapassato da parte a parte. Dopo aver recuperato la lancia, uccise altri due cavalieri e poi, persa l'arma, si fece largo tra i nemici con la spada. Nelle prime fasi della battaglia, non solo i fanti guelfi ressero ai primi attacchi dei ghibellini, ma contrattaccarono a loro volta. Questo spinse la quarta divisione di Niccolò da Bigozzi a contravvenire agli ordini e intervenire lasciando la difesa del carroccio senese.

Dopo alterne fasi della battaglia, verso il pomeriggio partì un contrattacco dei ghibellino-senesi.

È in questa fase che si verificò l'episodio di Bocca degli Abati. Questi, seppure al fianco dei guelfi fiorentini a causa di complicati interessi e alleanze, era in realtà di parte ghibellina. Alla vista del contrattacco senese, Bocca si avvicinò al portastendardo fiorentino Jacopo de' Pazzi e gli tranciò di netto la mano che reggeva l'insegna. Questo causò un notevole sconcerto tra le fila guelfe. Su quanto questo episodio sia stato importante per l'esito della battaglia, ci sono da secoli opinioni controverse.

Oltre a questo episodio, in questa fase dalle file ghibelline si alzò l'invocazione a San Giorgio, segnale per la prima divisione, quella del conte d'Arras, che attaccò i fiorentini alle spalle. Il conte stesso uccise il comandante generale dei fiorentini Iacopino Rangoni da Modena. È a questo l'inizio della rotta dei guelfo-fiorentini. I ghibellini si lanciarono all'inseguimento e iniziarono "lo strazio e 'l grande scempio che fece l'Arbia colorata in rosso" (Dante, Divina Commedia, Inferno, Canto X, 85) durato fino all'arrivo della notte. Si calcola che le perdite siano ammontate a diecimila morti e quindicimila prigionieri in campo guelfo, di cui 2500 e 1500 fiorentini, e 600 morti e 400 feriti in campo ghibellino.

Solo al calare della notte i comandanti ghibellini diedero l'ordine di salvare la vita di chi si fosse arreso, uccidendo comunque tutti i fiorentini che fossero stati catturati. Questi ultimi, uditi i comandi della parte avversa, cancellarono dai vestiti i segni di riconoscimento e si mescolarono ai loro alleati per aver salva la vita.

Ancora una leggenda racconda della vivandiera Usilia che, da sola, catturò 36 fiorentini salvandogli allo stesso tempo la vita. Il sacco al campo guelfo permise ai ghibellini di catturare quasi diciottomila animali tra cavalli, buoi e animali da soma.

Le bandiere e gli stendardi dei fiorentini furono presi e lo stesso gonfalone di Firenze fu attaccato alla coda di un asino e trascinato nella polvere.

[modifica] Dopo la battaglia

Il 13 settembre del 1260 i guelfi fiorentini abbandonarono la loro città e si rifugiarono a Bologna e a Lucca, considerando di non potersi più trattenere a Firenze per paura delle rappresaglie dei ghibellini. A Lucca si rifugiarono anche i guelfi delle altre città partecipanti alla lega sconfitta.

I senesi avanzarono in territorio fiorentino, conquistandone alcuni castelli.

I ghibellini fiorentini fuoriusciti rientrarono nella città dell'Arno il 27 settembre 1260 e si insediarono al governo della città. Tutti i cittadini furono furono fatti giurare fedeltà al re Manfredi. Le torri e le abitazioni dei fiorentini di parte guelfa furono rase al suolo, così come era stato fatto contro i ghibellini nel 1258.

Alla fine dello stesso mese fu convocata a Empoli una dieta delle città e dei signori della Toscana di parte ghibellina per discutere come rafforzare il ghibellinismo toscano e consolidare nella regione l'autorità del re. Ad Empoli, i rappresentanti di Siena e Pisa sostennero la distruzione di Firenze, alla quale si oppose il ghibellino fiorentino Farinata degli Uberti, salvandola da ulteriori distruzioni.

Dopo Montaperti, il 18 novembre, il papa Alessandro IV scomunicò tutti i sostenitori di re Manfredi in Toscana.

Se da una parte la scomunica in realtà rafforzò il partito ghibellino, che il 28 marzo 1261 si strinse in alleanza contro i guelfi toscani, a lungo termine fu presa a pretesto dai capi guelfi d'Italia e da molti stranieri per non pagare i debiti contratti con i mercanti e i banchieri senesi, con conseguenze serie sull'economia della città.

Il 25 maggio 1261 il papa Alessandro IV moriva e questo sembrava decretare la definitiva vittoria del partito ghibellino su quello guelfo.

In realtà, nel giro di pochi anni la fazione guelfa riprese il potere in Toscana e già nel 1269 Siena subì una grave sconfitta da parte di Firenze nella Battaglia di Colle, durante la quale trovò la morte lo stesso comandante senese Provenzano Salvani.

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