Antonio Genovesi
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Antonio Genovesi (Castiglione del Genovesi, 1° novembre 1713 - Napoli, 22 settembre 1769) fu uno scrittore italiano di filosofia ed economia politica.
[modifica] Vita
Figlio di Salvatore Genovese, un modesto calzolaio, e di Adriana Alfinito di San Mango, nacque a Castiglione il 1° novembre 1713, anche se in alcuni testi (persino nella Autobiografia) viene riportato 1712. Anche il cognome, nel corso degli anni, subì la trasformazione da Genovese a Genovesi.
Il padre, con enormi sacrifici e con fermezza, lo indirizzò in tenera età verso gli studi, affidandolo prima alle cure del canonico della Chiesa di S. Michele don Domenico Genovese, quindi al suo successore don Adriano Vitolo e, successivamente, al canonico don Scipione Genovese. A quattordici anni fu affidato agli insegnamenti di Niccolò Genovese, un congiunto, giovane medico tornato da Napoli, il quale lo istruì in filosofia peripatetica per due anni e in quella cartesiana per un anno. In quel periodo era preso da una sempre crescente voglia di apprendere, di migliorare e, sollecitato continuamente dal padre, si confrontava in accese dispute dialettiche e filosofiche con i frati e con professori che, più volte, si spaventavano per non saper reggere il confronto con quel giovane di così alto talento. Successivamente, a seguito dell'influenza ricevuta dal prete Don Saverio Parrilli, tralasciò gli studi classici e filosofici per seguire la lettura di romanzi cavallereschi. Il padre, accortosi di questo suo rilassamento, gli proibì di frequentare ancora il prelato e lo costrinse a riprendere gli studi di filosofia e a frequentare, una volta divenuto chierico d’ordini minori, la parrocchia.
A diciotto anni, nel corso degli studi teologici, il Genovesi conobbe, sia pure in maniera casta e platonica, l’amore per una fanciulla di Castigione, Angela Dragone. Al primo incontro avvenuto in chiesa ne fu conturbato e, come sublimamente descrisse nella Autobiografia, edita nel 1755, Non ci è esca in cui meglio Si appigli amore... Io ne fui preso, ch’io impallidii e tremai. Come fui in casa, io non sapevo io medesimo ciocché mi fusse avvenuto. Io non ero viziato, in me l’amore era de’ più puri…Questo amore durò due anni prima che mio padre se ne accorgesse.Io non studiai però meno, anzi con più ardore e spirito. Io faceva gloria de’ miei studi. Questo amore non trovava, naturalmente, l’approvazione del severissimo genitore il quale condusse immediatamente il figllo a Buccino, dove abitavano alcuni parenti, presso il convento dei Padri Agostiniani. Subito fece amicizia con tutti gli altri Frati dei conventi di Buccino e seguì gli insegnamenti teologici e filosofici del prete Don Giovanni Abbamonte dimostrando, nel contempo, passione per il latino ed il greco. Dopo quasi due anni, fece ritorno a Castiglione dove apprese che Angela Dragone si era sposata e, deluso, si dedicò con ancor più fervore agli studi.
Ricevette l’ordinazione a diacono dopo aver superato brillantemente l’esame di teologia dogmatica alla presenza dell’arcivescovo di Salerno don Fabrizio di Capua in data 22 dicembre 1736, presso la Cattedrale di Salerno. A ventiquattro anni fu nominato maestro di retorica presso il seminario di Salerno dove incontrò il vice rettore, don Antonio Doti, dal quale ricevette insegnamenti di lingua francese e lezioni di perfezionamento nel latino e nell'italiano.
Nell'anno 1738, all'età di venticinque anni, venne ordinato sacerdote e, dopo pochi mesi, si trasferì a Napoli con i ducati ricevuti in eredità dallo zio prete Don Sabbato Alfinito, deceduto il 13 ottobre 1738: ... Era uomo di santissima vita. Come non aveva nipoti maschi, divise l'eredità tra tre sue nipoti, una delle quali era stata mia madre. lo l'aveva assistito con grandissima diligenza tutto il tempo della sua infermità. Egli mi distinse nel testamento. Avendo in questa maniera raccolti 600 ducati di contante mi ritirai in Napoli il principio del 26° anno della mia età .... A Napoli fu in stretto contatto con Giovanbattista Vico e nell' Università partenopea, nel 1741, ottenne la cattedra di metafisica, cui fu successivamente aggiunta quella di etica.
Fino a quella data, dimostrò di essere un profondo conoscitore delle letterature classiche e un cultore di scienze metafisiche e teologia. Verso i quarant'anni, però, cominciò a disdegnare la vecchia cultura teorica sostituendola, gradualmente, con l'amore per le discipline pratiche: fu l'inizio dell'era della ragione. Si diffondevano in quel tempo i primi accenni di rivolta allo spirito e al costume della Controriforma: gli spunti di polemica antigesuitica e anticlericale, la ripresa della lotta in difesa dell’autonomia dello Stato laico contro ogni interferenza della Chiesa, i primi elementi di una teoria delle monarchie illuminate e del regime paternalistico, nonché, sul piano letterario, l'avvento di una poetica e di una critica più aperte e coraggiose. In pratica, fu l'inizio della vera rivoluzione culturale che si attuò nella seconda metà del Settecento sotto il segno dell'Illuminismo caratterizzata dalla necessità di trasformare integralmente i cardini della vecchia civiltà in tutte le sue manifestazioni.
Antonio Genovesi, sicuramente, recepì l'influenza del nuovo panorama culturale italiano del suo tempo, con la voglia di cercare con studi ed esperimenti il concetto della pubblica felicità, consistente nel far uscire l'uomo da uno stato di oscurità e portarlo al rischiaramento ( Illuminismo, che in Francia era già in atto: Les Luminiéres). Egli prese coscienza della decadenza culturale, materiale e spirituale dopo il periodo d’oro del Napoletano e, quindi, si rese conto della necessità di intervenire per riportare le arti, il commercio e l'agricoltura a nuovi splendori. Per tale motivo, abbandonò l'etica e la filosofia e dedicò completamente i suoi studi all'economia affermando tra le altre cose, che essa doveva servire ai governi per alimentare la ricchezza e la potenza delle nazioni. Dal 1754 fu docente di economia politica, occupando una cattedra istituita appositamente per lui presso l'Ateneo napoletano da Bartolomeo Intieri.
Tenne sempre le sue lezioni in lingua italiana grazie alla sua passione per il civile: viene ricordato per essere stato il primo docente a non esprimersi in latino durante i suoi corsi e per essere stato tra i primi a scrivere trattati di metafisica e di logica in italiano. Così anche e soprattutto diffondere lo studio dell’economia e delle scienze nel popolo è un mezzo di incivilimento (in questo atteggiamento Genovesi è ancora una volta in piena continuità con gli umanisti civili). Seguace delle idee del Vico e più ancora di quelle di Locke limitatamente alla filosofia, il Genovesi dovette servirsi dell'intervento accorato del vescovo di Taranto, Galiani, e dello stesso pontefice Benedetto XIV per conservare l'abito talare.
Tra le sue opere filosofiche, le principali sono: Meditazioni filosofiche del 1754; Lettere filosofiche del 1759; Lettere Accademiche del 1764; Elementi di Metafisica (in quattro parti)dal 1743 al 1752; Delle Scienze Metafisiche; La logica; Logica e Metafisica; Diocesinae (o sia della Filosofia del Giusto e dell'Onesto) del 1767 e Memorie Autobiografiche. In esse Antonio Genovesi tende ad una via di mezzo tra idealismo ed empirismo, cercando ad ogni costo, di salvare gli essenziali valori religiosi della filosofia cristiana. Il suo pensiero economico è espresso nelle famose Lezioni di commercio o sia di economia civile che risalgono agli anni 1766 e 1767, considerate come una delle prime opere veramente scientifiche in materia economica.
Il Genovesi cercò, così, di indicare la via per alcune riforme fondamentali: dell'istruzione, dell'agricoltura, della proprietà fondiaria, del protezionismo governativo su commerci ed industrie. Anche la sua opera di pedagogista non si limitò a meri progetti: nel Discorso sul vero fine delle scienze e delle lettere, infatti, egli propugnò il suo programma ideale, ispirato al movimento illuministico, sia pure in maniera molto moderata. Altre opere da ricordare sono La logica per i giovanetti e Lettere familiari. Morì a Napoli il 22 settembre 1769. La salma fu sepolta nella Chiesa del convento di Sant'Eramo Nuovo (o Sant'Eusebio) a cura del suo caro amico Don Raimondo di Sangro, Principe di San Severo.
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