Ugolino della Gherardesca
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Il conte Ugolino della Gherardesca (Pisa, circa 1220 – Pisa, marzo 1289) era un aristocratico toscano di origine sarda, uomo politico guelfo e comandante navale del XIII secolo.
Ugolino ricopriva un'importante serie di cariche nobiliari: era infatti Conte di Donoratico, secondo in successione come Signore del Cagliaritano e Patrizio di Pisa; divenne Vicario di Sardegna nel 1252 per conto del Re Enzo di Svevia, e fu uno dei vertici politici di Pisa dal 18 aprile 1284 (come podestà) al 1 luglio 1288, giorno in cui fu deposto dal ruolo di capitano del popolo.
Gli attriti con Ruggeri degli Ubaldini (arcivescovo di Pisa nonché capofazione ghibellino) portarono la sua posizione a peggiorare a tal punto che finì con alcuni figli e nipoti rinchiuso in una torre, dove morì per inedia nel marzo 1289.
La sua figura fu rappresentata, vent'anni dopo, nel canto XXXIII dell'Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri.
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[modifica] La storia
[modifica] Gioventù e passato militare
Ugolino nacque a Pisa da una famiglia di origine sarda, i della Gherardesca, che grazie alle connessioni con la casata degli Hohenstaufen godeva di possedimenti e titoli in quella regione (allora territorio della Repubblica di Pisa) e difendeva le posizioni dei ghibellini in Italia.
Questo ben si adattava alle esigenze politiche di una città come Pisa, che storicamente appoggiava l'Impero contro il Papato.
Egli era però passato alla fazione guelfa grazie a una serie di frequentazioni e a un'amicizia profonda col ramo pisano dei Visconti, tanto che una delle sue figlie andò in sposa a Giovanni Visconti, Giudice di Gallura. Tra il 1271 e il 1274 guidò una serie di disordini contro il podestà imperiale ai quali partecipò lo stesso Visconti, e che finirono con l'arresto di Ugolino e l'esilio per Giovanni. Morto Giovanni nel 1275, Ugolino fu mandato in esilio – un confino terminato qualche anno dopo manu militari, grazie all'aiuto di Carlo I d'Angiò.
Nuovamente inserito nel tessuto politico pisano, fece valere la propria formazione diplomatica e bellica: nel 1284 era uno dei comandanti della flotta della repubblica marinara, e ottenne piccole vittorie militari contro Genova nella guerra per il controllo del Tirreno che era scoppiata quello stesso anno. Partecipò anche alla battaglia della Meloria del 1284, dove Pisa fu pesantemente sconfitta e in seguito alla quale perse territorio e influenza.
Secondo alcune testimonianze dell'epoca, durante la battaglia Ugolino non riuscì a concludere alcune manovre navali, in particolare il ritiro di alcuni vascelli da una parte dello specchio d'acqua per rinforzarne altri: si convenne dunque che Ugolino stesse cercando di scappare con le forze a sua disposizione, e si generò il sospetto che fosse null'altro che un disertore, fermato più dal precipitare degli eventi che da un effettivo ripensamento.
[modifica] Ascesa politica e trattative di pace
Conclusa l'esperienza con la marina, e nonostante le accuse che gli venivano rivolte, Ugolino fu nominato prima podestà (1284) e poi capitano del popolo (1286) assieme al figlio di Giovanni Visconti, Nino. Egli ricopriva questa carica in un momento difficilissimo per la Repubblica: approfittando infatti della semidistruzione della flotta pisana, Firenze e Lucca, tradizionalmente guelfe, attaccarono la città. Avere un vertice guelfo a capo di una città ghibellina avrebbe aumentato le possibilità di parlamentare e smorzato i contrasti tra i governi, a patto di poter contare su una personalità forte.
Ugolino prese per prima cosa contatti con Firenze, che pacificò corrompendo, per mezzo delle sue cospicue amicizie, alcune alte cariche della città. In qualità di uomo più influente di Pisa prese poi contatti coi lucchesi, che desideravano la cessione dei castelli di Asciano, Avane, Ripafratta e Viareggio; pur sapendo che per Pisa si trattava di una concessione troppo ampia, essendo tali piazzeforti una serie di punti chiave del sistema difensivo cittadino, acconsentì alle pretese di Lucca, e con questa convenne in segreto di lasciarle senza difesa. Alla conclusione dell'operazione, che fattivamente poneva fine al conflitto, Pisa manteneva il controllo delle sole fortezze di Motrone, Vico Pisano e Piombino.
I negoziati di pace con Genova non furono meno dolorosi: riguardo al fallimento delle trattative esistono due versioni, probabilmente diffuse dalle fazioni politiche coinvolte. Secondo una leggenda di chiara origine ghibellina, Ugolino decise non cedere alle richieste genovesi – il passaggio di mano della rocca di Castro, in Sardegna – in cambio dei prigionieri pisani per impedire il rientro di alcuni capi ghibellini imprigionati a Genova. Secondo una voce più probabilmente guelfa, alcuni tra i prigionieri avevano dichiarato, interpretando l'umore di tutti, che avrebbero preferito morire piuttosto di vedere una piazzaforte costruita dagli antenati cadere senza combattere, e se fossero stati liberati avrebbero impugnato le armi contro chiunque avesse consentito uno scambio tanto disonorevole.
[modifica] Potere assoluto e lotte intestine
Curiosamente, l'insieme delle trattative riuscì ad accontentare chiunque all'infuori di Pisa, e a scontentare tutti i pisani: i ghibellini cominciavano a guardarlo come un traditore in battaglia come in politica, per essere passato alla parte guelfa in gioventù, per la "diserzione" della Meloria e per il sacrificio dei capi ghibellini a Genova, al momento destinati alla vendita come schiavi; i guelfi lo consideravano ambiguo, privo di una vera affidabilità per le proprie origini ghibelline, dalla concessione facile nei confronti dei nemici e troppo avido di ricchezze e potere per costituire una guida sicura della città.
Il duovirato con Nino ebbe dunque vita breve: costui decise di appropriarsi del titolo di podestà insediandosi nel palazzo comunale, e si avvicinò alla maggioranza ghibellina entrando in contatto con l'arcivescovo, nonché capofazione del patriziato e dei sostenitori dell'Impero, Ruggeri degli Ubaldini.
Il conte reagì con assoluta fermezza: nel 1287 scacciò e fece demolire i palazzi di alcune famiglie ghibelline prominenti, occupò con la forza il palazzo del comune, ne scacciò il nuovo podestà e si fece proclamare signore di Pisa.
Nell'aprile dello stesso anno giunse a Pisa una delegazione di ambasciatori genovesi per trattare la pace e decidere sulla sorte dei numerosi prigionieri della Meloria, per la cui liberazione si era deciso di abbassare il riscatto: anziché la cessione del Castro, Genova si sarebbe accontentata di una somma in denaro.
Ugolino della Gherardesca, all'apice del potere, vide però nel ritorno dei prigionieri una minaccia, tanto più che questi gli avevano giurato vendetta per il fallimento delle trattative iniziali: in risposta alla legazione, che rientrò a Genova a mani vuote, le navi pisane cominciarono ad aggredire i mercantili genovesi nell'alto Tirreno, per mano dei corsari sardi.
Per scongiurare che anche il nipote Nino diventasse una minaccia all'unità del proprio potere, fece rientrare in città alcune delle famiglie ghibelline scacciate (i Gualandi, i Sismondi e i Lanfranchi), le cui milizie si unirono a quelle dei della Gherardesca: una mossa che valse una parziale pacificazione con Ruggeri degli Ubaldini, il quale fece finta di non vedere quando il Visconti gli chiese appoggio contro le forze politiche schierate contro di lui.
[modifica] Esasperazione popolare e vendetta
Esiliato il nipote, sistemata la questione con Genova e pacificate Firenze e Lucca, il conte Ugolino, dall'alto del proprio potere ormai quasi assoluto, si permise il lusso di rifiutare un'alleanza con l'arcivescovo in un momento delicatissimo per la storia della Repubblica: dopo una serie di lotte intestine che impedirono la ricostruzione di una flotta militare, e dopo che si era indebolita proprio per questa ragione quella mercantile, nel 1288 Pisa soffriva di un drammatico caroviveri, che limitava al minimo la circolazione delle merci e soprattutto impediva il continuo e corretto approvvigionamento della popolazione.
Le tensioni che si crearono tra le grandi famiglie pisane causarono una serie di rivolte e scontri, nei quali le famiglie della maggioranza ghibellina appoggiata da Ruggeri degli Ubaldini (Gualandi, Sismondi, Lanfranchi, Orlandi, Ripafratta) si opposero con le armi alle famiglie della minoranza guelfa appoggiata dal conte (Visconti, Gaetani, Upezzinghi): entrambe le fazioni erano state rimpolpate nel numero dei combattenti dalla penetrazione di guelfi e ghibellini travestiti da mercanti.
Il casus belli fu la morte di un nipote dell'arcivescovo, avvenuta per mano dello stesso Ugolino, durante un violento alterco che quest'ultimo aveva avuto con un familiare. Il 1° luglio 1288, dopo avere partecipato nella chiesa di San Bastiano ad un consiglio che doveva decidere della pace con Genova, ma che si sciolse senza concludere nulla, Ugolino si ritrovò coinvolto coi suoi in una serie di violenti attacchi, in cui morì Balduccio della Gherardesca, un figlio naturale del conte.
Dopo un'accanita resistenza, sopraffatto coi suoi dai ghibellini, Ugolino si chiuse verso mezzogiorno coi familiari nel palazzo del comune, dove rimase a difendersi disperatamente fino a sera e donde uscì solo dopo che fu appiccato il fuoco all'edificio.
Furono allora rinchiusi nella Muda, una torre di proprietà dei Gualandi, che fu una durissima prigione per Ugolino, i figli Gaddo e Uguccione, e i nipoti Anselmuccio e Lapo. Per ordine dell'arcivescovo, nel frattempo autoproclamatosi podestà, nel marzo 1289 fu dato ordine di gettare la chiave della prigione nell'Arno, e di lasciare i cinque prigionieri morire di fame.
I loro corpi furono trasportati post mortem al chiostro della Chiesa di San Francesco, sempre a Pisa, dove rimasero fino a 1902; in quell'anno infatti le spoglie dei cinque furono ricomposte e portate all'interno della Cappella della Gherardesca [1].
[modifica] La leggenda
Se la biografia di Ugolino della Gherardesca è suffragata da alcune prove storiografiche, la terribile fine del conte nei suoi tragici aspetti deve la sua fama e la sua diffusione esclusivamente a Dante Alighieri, che lo collocò nell'Antenora, ovvero il secondo girone dell'ultimo cerchio dell'Inferno (a metà tra i canti XXXII e XXXIII), tra i traditori.
Secondo Dante, i prigionieri morirono per inedia lentamente e tra atroci sofferenze, e prima di morire i figli di Ugolino lo pregarono di cibarsi delle loro carni. Nel poema, Ugolino afferma che più che il dolor poté il digiuno, con una doppia, ambigua interpretazione: in un caso, il conte ormai impazzito si ciba della progenie; nell'altro, resiste alla fame e lascia che sia il denutrimento a dare il colpo di grazia a un uomo già distrutto dal dolore per la perdita dei figli.
La prima conclusione, la più terrificante e raccapricciante, fu quella che convinse maggiormente l'ampio pubblico della Commedia: per questa ragione Ugolino è passato alla storia come il conte cannibale e viene spesso rappresentato con le dita delle mani strappate a morsi ("ambo le man per lo dolor mi morsi", Inf XXXIII, 57) per la costernazione, come nella scultura I Cancelli dell'Inferno di Auguste Rodin, e Ugolino e i suoi figli di Jean-Baptiste Carpeaux.
Ugolino appare nell'Inferno sia come un dannato che come un demone vendicatore, che affonda i denti per l'eternità nel capo dello spietato arcivescovo Ruggeri.
[modifica] Le recenti analisi
Nel 2002, l'archeologo Francesco Mallegni trovò quelli che vennero consierati come i resti di Ugolino e dei suoi familiari. Le analisi del DNA delle ossa evidenziarono che si trattava di cinque individui di tre generazioni della stessa famiglia (padre, figli e nipoti), e ricerche effettuate sugli attuali discendenti dei della Gherardesca portarono alla conclusione che i resti umani appartenevano a membri della stessa famiglia, con uno scarto del 2%.
Il medico legale che seguì la ricerca non crede ci sia stato alcun cannibalismo: le analisi delle costole del presunto scheletro di Ugolino hanno rivelato tracce di magnesio ma non di zinco, che sarebbe invece evidente nel caso in cui avesse consumato carne nelle settimane prima del decesso.
Risulta abbastanza evidente, invece, l'inedia di cui hanno sofferto le vittime prima della morte: Ugolino era un uomo molto anziano (più che septuagenario) ed era quasi senza denti quando fu imprigionato, il che rende ancor più improbabile che sia sopravvissuto agli altri e abbia potuto cibarsene in cattività.
Inoltre, Mallegni ha sottolineato che il più anziano degli scheletri aveva la scatola cranica danneggiata: se si trattava di Ugolino, si può affermare che la malnutrizione ha peggiorato sensibilmente le sue condizioni, ma non è stata l'unica causa di morte.