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Guerra santa - Wikipedia

Guerra santa

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Indice

La locuzione guerra santa è usata ad indicare un'azione o un complesso di manovre strategiche militari, ed in genere una vera e propria guerra alla quale siano attribuite finalità di salvaguardia di valori religiosi. Nonostante la prevalenza dell'uso che se ne fa per iperbole nel comune conversare, l'espressione ha nella storia ben precisi significati e riferimenti.

[modifica] La "santità" della guerra

In tutte le epoche l'uomo ha d'ordinario manifestato spontanea riluttanza a partecipare in prima persona a conflitti bellici, anche ovviamente per la palese consapevolezza dei gravi rischi connessi, ed è pertanto sempre stata cura dei promotori delle guerre di fornire motivazioni di forte rilievo morale per poter radunare consenso intorno alle azioni proposte, onde poter contare su forze armate efficacemente determinate a conseguire la vittoria.

Oltre ai motivi ideali (indipendenza, lotta all'oppressore, instaurazione della civiltà, resistenza all'aggressione, etc.), si è verificata più volte nel corso della storia la necessità di ricorrere a suggestioni più profonde anche per eliminare le resistenze etiche che minavano il consenso.

Con lo sviluppo delle religioni rivelate, che, proponendo modelli comportamentali universalistici, vedono nel proselitismo una sicura via di salvezza per ogni uomo e ogni comunità, il richiamo morale si è fatto più facile da inoltrare. Se esiste una via (e soltanto una) per la salvezza, quella rivelata (ad Abramo e poi a Mosè; da Gesù Cristo; a Muhammad) la diffusione della via per la salvezza diventa un dovere.

L'attribuzione di "santità" o liceità della guerra, assolve dunque alla funzione di nobilitare la motivazione guerresca e di garantire preventivamente al soldato la liceità di quanto sta per compiere. Analoga alla non imputabilità giuridica del soldato che uccide, sorge dunque la discriminante religiosa, per la quale nemmeno la Legge di Dio è stata violata se la guerra risponde all'interesse della religione. Questa attribuzione viene appunto rilasciata dall'autorità religiosa, a volte con enfatica determinazione, ma più spesso con implicito avallo, a seguito di specifiche interpretazioni dei rispettivi riferimenti teologici (della sistematizzazione interpretativa posteriore) ma anche scritturali, cioè quelli esplicitamente rintracciabili nel libro sacro, ove possibile. In genere, l'esegesi a ciò finalizzata produce il risultato che "a talune condizioni" la guerra sarebbe un "male minore", un "necessario sagrifizio" e un doveroso intervento comunque ben gradito al Signore; coloro che si rivolgono con approccio critico verso simili sinergie fra autorità religiose e politiche, non mancano però di sottolineare la variabile elasticità interpretativa delle rispettive Scritture.

Gli Ebrei, che inaugurano la prima religione monoteista rivelata, per primi sperimentano anche tutto ciò che ad esso si accompagna: il diritto divino, l'esaltazione del popolo eletto, la sconfitta dell'ateismo, delle religioni avversarie e di chi le professa, invocando anche l'aiuto divino per le azioni armate necessarie ad ottenere tali obiettivi.

Nell'Antico testamento il ritorno degli ebrei dalla schiavitù in Egitto coincide con una guerra per liberare il territorio promesso da Dio ad Abramo dai popoli insediatisi nel frattempo. L'antico popolo ebraico è eletto (scelto) da Dio. Il proselitismo costituiva un punto fermo dell'antico popolo di Israele, e Hans Kung fa notare che era pur sempre attestato. L'immagine dell'ebraismo moderno come religione che non fa proseliti è vera ma, appunto, moderna. Dio promette al suo popolo "eletto" una terra in "possesso perenne" (Gen. 17,8) e ciò giustifica l'occupazione della Palestina con ogni mezzo, compiendo qualsiasi tipo di violenza ai danni di chi vi risiede ("Io li distruggerò", Esodo 23,23), nell'ambito di quella che per la prima volta viene definita. appunto, "guerra santa" (Giosuè 6,21).

Non diversamente stanno le cose col Cristianesimo, anche se diverso ne è il fondamento "ideologico". Il Cristo, che espressamente introduce l'apostolato e la diffusione della "buona novella", non fornisce un così esplicito consenso alla violenza come mezzo di diffusione della sua parola. E tuttavia l'invito a rendere "a Cesare quel ch'è di Cesare" (Mt 22, 21) e l'affermazione categorica di Paolo secondo cui "Non c'è autorità se non da Dio" (Rm 13, 1) rientrano tra i tanti passi della Scrittura utilizzati per affermare che i detentori del potere sono innnanzitutto ministri di Dio, per costruire nel tempo le "sante" alleanze tra potere temporale e potere spirituale, per giustificare nei secoli milioni di morti ammazzati in nome di Dio. Opinione che ha visto pochissimi Padri della Chiesa esprimersi, sempre e comunque, contro l'uso della violenza: Tertulliano, Origene e Lattanzio costituiscono rari nates in un mare di giustificazionismo cristiano (cfr. P. Contamine, La guerra..., p. 356) ed è alla luce di questi ultimi che vanno, ad esempio, lette la tolleranza di fatto della chiesa verso la fammigerata Quarta cociata veneziana contro la cristiana Costantinopoli o le campagne di conquista intraviste anche come azioni di evangelizzazione degli Spagnoli e dei Portoghesi nel continente americano, che tale valenza in verità non si erano, almeno coscientemente, auto-attribuita.
Inutili furono le lamentele da parte di singoli prelati (come Bartolomeo de Las Casas) e delle autorità della Chiesa di Roma.
Laddove invece la Chiesa non agì come braccio spirituale dell'Impero spagnolo, bensì indipendentemente e anzi in flagrante contrasto con esso, sorsero interessanti esperimenti di autogoverno indigeno e di comunitarismo, come accadde nelle Reducciones fondate dai Gesuiti in Paraguay. Invise e insopportabili per un potere coloniale perché rendevano evidente il raffronto con i confinanti possessi spagnoli e portoghesi, le Reducciones furono perseguitate, invase e saccheggiate dagli eserciti coloniali (a livello di fiction, il film Mission di Roland Joffé è un'ottima operazione didattica riferita a questo episodio storico semidimenticato).

Nell'Islam conta invece più la diffusione politico-territoriale della dār al-Islām (casa dell'Islam) che la conversione in sé. Secondo un passo del Corano, non facilmente interpretabile, non c'è costrizione nella fede (lā ikrā' fī l-dīn).
Nella dār al-Islām ai musulmani spetta comunque la direzione politica, la piena espressione delle pratiche di culto e il possesso delle armi (dell'esercito). Ai dhimmi (ebrei, cristiani, mazdei e altri), privi della piena cittadinanza, è concesso un limitato esercizio del culto e di proprietà e l'accesso a cariche amministrative anche elevate ma nessuna partecipazione militare. I dhimmi devono inoltre pagare un'apposita tassa, la jizya (imposta personale) ed eventualmente il kharāj (imposta fondiaria).

[modifica] Le Crociate

Per approfondire, vedi la voce Crociata.

Le guerre sante tradizionalmente più riconoscibili furono le Crociate che dall'Europa cristiana si mossero alla volta della Terra Santa, allora in mano ai musulmani e non è un caso se proprio con papa Urbano II, promulgatore della Prima crociata, si deve l'ufficializzazione di quello che all'epoca non apparve evidentemente l' ossimoro di "guerra santa". Malgrado la diretta partecipazione ad esse di elementi di rilievo delle gerarchie pontificie e la sottolineatura più volte ribadita del merito che tali imprese assumevano agli occhi di Dio, la moderna storiografia avanza più d'un dubbio sui veri fini delle campagne militari in Terra Santa.

La riconquista dei luoghi natali di Cristo, segnalata come dovere inderogabile per ogni cristiano che, solo per questo, avrebbe dovuto partire in armi, appare mossa da motivazioni d'ordine squisitamente materiale, anche se non mancarono ovviamente quelle spirituali.

[modifica] Il Jihad islamico

Per approfondire, vedi la voce Jihad.

In tempi recenti e per motivi legati all'attualità, la locuzione è spesso utilizzata, secondo alcuni in maniera non del tutto appropriata, per il Jihād che identifica l'obbligo per i componenti della comunità islamica di difendere, in caso di aggressione, oppressione o persecuzione, la comunità stessa.

Sotto questo aspetto, al Jihād viene attribuito un carattere eminentemente difensivo che non prevede atti di efferatezza. Secondo un hadīth (tradizione religiosa) il profeta Muhammad esortò così i credenti in Allah: "non uccidete donne, bambini, neonati, vecchi".

Una sostanziale differenza fra il Jihād e la Crociata risiede però nella diversa organizzazione della guerra santa, che nell'Islam può derivare direttamente e spontaneamente dall'individuale lettura del Corano — anche se, per essere validamente proclamata, nella dottrina classica si pretende il parere favorevole della maggioranza dei più autorevoli giurisperiti ('ulamā', sing. 'ālim), lasciando che l'iniziativa incombesse sul califfo (nel mondo sciita all'Imàm) — mentre la Crociata è istituzionalmente promossa dal vertice della piramide teocratica, che è assente nell'Islam.
Con la dissoluzione dell'Impero Ottomano è venuta a mancare però un'autorità politica unica che governi la maggioranza del mondo musulmano, mentre con l'occultamento ( ghayba ) dell'Imām dello Sciismo - destinato a manifestarsi solo alla fine dei tempi - anche la più cospicua minoranza dell'Islam si trova formalmente nell'impossibilità di proclamare il Jihād. A causa della mancanza di organizzazione ecclesiastica all'interno della vasta maggioranza dei musulmani, nessun divieto giuridico tuttavia può sanzionare chi si autoproclami ˁālim e quindi, sia pur con grande sicumera, non mancano improvvisati ˁulamā che non esitano a proclamare un jihād dopo essersi provvisti di una qualsivoglia compiacente fatwà, un parere legale che risponda a un quesito giuridico astratto, in grado di sostenere la loro proclamazione. Resta però da verificare l'autorevolezza di certi muftī che talora sembrano ricevere più attenzione dai media dei paesi non islamici che da quelli invece degli stessi paesi musulmani, senza dimenticare che le fatāwa (pl. di fatwà) possono essere numerose e contrastanti, talché può accadere che qualcuno ritenga legittimo proclamare un jihād laddove un altro non ne ravvisi i requisiti legali minimi.
Tali "nuovi dotti", spesso auto-didatti e forti contestatori dell'autorità degli 'ulamā' ufficiali (accusati di connivenza o, quanto meno, di acquiescenza nei confronti dei numerosi autocrati che governano il mondo islamico in spregio delle indicazioni etico-giuridiche imposte dall'Islam), non si adeguano per lo più quindi al radicato portato della tradizione islamica (assai rigida nel legittimare il ricorso al jihād), stratificatasi in 14 lunghi secoli di riflessione teologica e giuridico-religiosa. Non temono quindi di proclamare un jihād anche quando ne manchino in modo evidente i requisiti indispensabili (arabo shurūṭ ), sì da fare assumere alle loro bellicose dichiarazioni un valore eminentemente politico.

Ha provocato a questo proposito aspre reazioni nel mondo islamico la citazione di una frase dell'imperatore bizantino Manuele II Paleologo pronunciata da Benedetto XVI nell'ambito di una lectio magistralis presso l'università di Ratisbona (Regensburg), nel corso della quale a proposito della guerra santa il Papa ha detto: "La fede è frutto dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia ..."

Per approfondire, vedi la voce Controversia con l'Islam sulla lezione di Ratisbona di papa Benedetto XVI.

[modifica] Bibliografia

  • Paul Alphandéry - Alphonse Dupront, La Chrétienté et l'Idée de Croisade, Parigi, Albin Michel, 1954 (trad. it. La cristianità e l'idea di crociata, Bologna, il Mulino, 1974.
  • Philippe Contamine, La guerre au Moyen Age, Parigi, PUF, 1980 (trad. it. La guerra nel Medioevo, Bologna, il Mulino, 1986.
  • Bernardo di Chiaravalle, Liber ad milites Templi. De laude novae militiae, in: Opere', a cura di F. Gastaldelli, Milano, ed. Scriptorium Claravallense, 1984 segg., vol. I, pp. 438-483.
  • Guglielmo di Tiro, Historia rerum in partibus transmarinis, gestarum, in: Recueil d'histoire des Croisades, I, Parigi, 1844.
  • Tommaso d'Aquino, Summa Theologica, in: Opera omnia, Roma, 1882, pp. 57-598.
  • AA.VV., Crociate. Gesti storici e poetici (a cura di G. Zaganelli), Milano, Mondadori, 2004.
  • J. Barnes, The just War, in: The Cambridge History of lateral medieval philosophy from the discovery of Aristotle to the disintegration of scholasticism, 1110-1600, Cambridge, 1982.
  • A. Morisi, La guerra nel pensiero cristiano dalle origini alle crociate, Firenze, Sansoni, 1963.
  • Alfred Morabia, Le gihad dans l'Islam médiéval, Parigi, Albin Michel, 1993.
  • P. Partner, God of Battles. Holy Wars of Christianity and Islam (trad. it.: Il Dio degli eserciti. Islam e Cristianesimo: le guerre sante, Torino, Einaudi, 1997).
  • Gilles Kepel, Le prophète et Pharaon, Parigi, Ed. du Seuil, 1984 (trad. it. Il Pofeta e il Faraone, Roma, Laterza, 2006).

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