Genocidio ruandese
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Il genocidio in ruanda fu uno dei più sanguinosi episodi della storia del XX secolo.
Dal 6 aprile alla metà di luglio del 1994 vennero massacrate sistematicamente (a colpi di armi da fuoco, machete e bastoni chiodati) una quantità di persone stimata tra le 800.000 e le 1.071.000.
Le vittime furono in massima parte di etnia Tutsi, che costituisce una minoranza rispetto agli Hutu, a cui facevano capo i due gruppi paramilitari principalmente responsabili dell'eccidio, Interahamwe e Impuzamugambi. I massacri non risparmiarono una larga parte di Hutu moderati, soprattutto personaggi politici.
Le divisioni etniche del paese sono state opera principalmente del dominio coloniale europeo, prima tedesco e poi belga, che iniziò a dividere le persone con l'introduzione della carta d'identità etnica e favorire quelli che consideravano più ricchi e di diversa origine: i Tutsi. In realtà Tutsi e Hutu fanno parte dello stesso ceppo etnico culturale Bantu e parlano la stessa lingua. Il genocidio terminò col rovesciamento del governo Hutu e della presa del potere, nel luglio del 1994, dell'RPF, il Fronte Patriottico Ruandese.
Indice |
[modifica] Cronistoria
Il 6 aprile del 1994 l'aereo presidenziale dell'allora presidente Juvenàl Habyarimana, al potere con un governo dittatoriale dal 1973, fu abbattuto da un missile terra-aria. Ancora oggi chi fece partire quel missile è ignoto: le ipotesi più accreditate sono quelle che portano alle frange estremiste del partito presidenziale, le quali non accettavano la ratificazione di un accordo (quello di Arusha, nel 1993) che concedeva al Fronte Patriottico Ruandese (RPF), composto in prevalenza da esiliati Tutsi nemici storici degli Hutu (che costituivano l'85% della popolazione e che dalla rivoluzione del 1959 detenevano completamente il potere) un ruolo politico e militare importante all'interno della società ruandese; un'altra ipotesi è quella che sostiene che fu proprio l'RPF a compiere l'attentato, convinto che il suo ruolo negli eventi sarebbe stato marginale e che i patti non sarebbero stati rispettati; negli ultimi tempi è stata inoltre incriminata la moglie del presidente, che proprio quel giorno, contrariamente alle sue abitudini, decise di prendere un mezzo alternativo all'aereo, forse perché conosceva in anticipo la sorte del marito o forse perché lei stessa ne aveva tessuto le trame.
Il giorno 7 aprile a Kigali e nelle zone controllate dalle forze governative (FAR, Forze Armate Ruandesi), con il pretesto di una vendetta trasversale, iniziano i massacri e l'eliminazione fisica della popolazione tutsi e dell'opposizione democratica da parte della Guardia Presidenziale, dei miliziani dell'ex partito unico (Movimento Rivoluzionario Nazionale per lo sviluppo) e dei giovani hutu. Il segnale dell'inizio delle ostilità fu dato dall'unica radio non sabotata, l'estremista "RTLM" che invitava, per mezzo dello speaker Kantano, a seviziare e ad uccidere gli "scarafaggi" tutsi. Per 100 giorni si susseguirono massacri e barbarie di ogni tipo; vennero massacrate più di un milione di persone in maniera pianificata e capillare.
Uno dei massacri più efferati fu compiuto a Gikongoro, l'allora sede dell'istituto tecnico di Murambi: oltre 27.000 persone vennero massacrate senza pietà e la notte dalle fosse comuni il sangue uscì andando ad inumidire il terreno. Per dare un'idea sommaria di quello che avvenne, basti pensare che in un giorno vennero uccise circa ottomila persone, circa 333 in un'ora, ovvero 5 vite al minuto. Il massacro non avvenne per mezzo di bombe o mitragliatrici, ma principalmente con il più rudimentale ma altrettanto efficace machete e con terribili bastoni chiodati, fatti importare per l'occasione dalla Cina.
[modifica] L'atteggiamento del mondo
La storia del genocidio ruandese è anche la storia dell'indifferenza del mondo occidentale di fronte ad eventi percepiti come distanti dai propri interessi. Emblematico fu l'atteggiamento dell'ONU che si disinteressò del tutto delle tempestive richieste di intervento inviategli dal maggiore generale canadese Romeo Dallaire, comandante delle forze armate (3.000 uomini) inviate dall'ONU. Si riporta un passo tratto dal fax inviato all'ONU dal maggiore generale in cui si denuncia il rischio dell'imminente genocidio: Dal momento dell'arrivo della MINUAR, (l'informatore) ha ricevuto l'ordine di compilare l'elenco di tutti i tutsi di Kigali. Egli sospetta che sia in vista della loro eliminazione. Dice che, per fare un esempio, le sue truppe in venti minuti potrebbero ammazzare fino a mille tutsi. (...) l'informatore è disposto a fornire l'indicazione di un grande deposito che ospita almeno centotrentacinque armi... Era pronto a condurci sul posto questa notte - se gli avessimo dato le seguenti garanzie: chiede che lui e la sua famiglia siano posti sotto la nostra protezione. Il Dipartimento per le Missioni di Pace con sede a New York si guardò bene dall'inviare la richiesta d'intervento alla Segreteria Generale o al Consiglio di Sicurezza.
Nonostante i diversi rapporti presentati alla Commissione per i Diritti Umani dell'ONU, il Consiglio di Sicurezza, a causa del veto USA, non riconosce il genocidio in Ruanda. Inoltre furono provate le responsabilità di molti paesi occidentali che mandarono i contingenti con l'unico scopo di salvare i propri cittadini. Fra questi spicca il Belgio e la Francia, che non solo non volle fermare la folle barbarie assassina (negli anni precedenti aveva armato e addestrato le FAR), ma anzi la fiancheggiò mandando contingenti a supportare le truppe hutu in ritirata dopo l'arrivo del FPR (tutsi). Gli USA però non si limitarono a mettere il veto, come si può vedere da questa citazione del reporter Steve Bradshow della BBC: "Quando le Nazioni Unite decisero di mettere insieme una forza d'intervento, gli USA la ritardarono con la scusa dei veicoli blindati - le loro argomentazioni andavano dal colore con cui dipingere i veicoli a chi avrebbe pagato per dipingerli."
Da ricordare anche lo spesso complice atteggiamento di alcuni membri della chiesa cattolica nel più cristianizzato paese africano (80% di crisitiani) nononstante Giovanni Paolo II abbia definito apertamente come genocidio quello avvenuto in Ruanda.
[modifica] Conseguenze
Ancora oggi, dopo più di dieci anni dal genocidio, rimangono in libertà numerosi autori delle stragi, alcuni paradossalmente protetti da paesi occidentali, come la Gran Bretagna, con il prestesto dell'assenza di trattati di estradizione con il Ruanda.
L'UNAMIR restò in Ruanda fino all'8 marzo 1996, con l'incarico di assistere e proteggere le popolazioni oggetto del massacro. L'ufficio dell'ONU fu capace di lavorare a pieni ranghi solo dopo il termine del genocidio, e questo ritardo costò alle Nazioni Unite una quantità di accuse che le portarono, nel marzo 1996 appunto, a ritirare i propri contingenti. Nel corso del mandato, avevano perso la vita 27 membri dell'UNAMIR – 22 caschi blu, 3 osservatori militari, un membro civile della polizia in collaborazione con l'ONU e un interprete.
Gran parte dei mandanti e dei perpetratori della carneficina trovarono rifugio nel confinante Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo). Gli odi razziali, che avevano fomentato la tragedia e che hanno lasciato un'impronta indelebile sul suolo ruandese, passarono così alle nazioni vicine: si suppone infatti che essi abbiano carburato la Prima e la Seconda guerra del Congo (rispettivamente, 1996-97 e 1998-2003), e che siano stati uno dei principali fattori della Guerra civile del Burundi (1993-2005). L'attuale conflitto del Darfur richiama da vicino il ruolo ottenuto dalla comunità internazionale durante il genocidio ruandese, suscitando il timore che le Nazioni Unite non siano effettivamente in grado di prevenire morte, miseria e distruzione in Sudan come altrove in Africa [1]
La vicenda è stata ricostruita dal film Hotel Rwanda (2004) e "Sometimes in April" (2004).
[modifica] Bibliografia
[modifica] Saggi
Istruzioni per un genocidio. Rwanda: cronache di un massacro evitabile, Daniele Scaglione; Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Michela Fusaschi
[modifica] Inchieste
Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie, Philip Gourevitch; A colpi di machete. La parola agli esecutori del genocidio in Ruanda, Jean Hatzfeld
[modifica] Testimonianze
J'accuse per il Rwanda. Ultima intervista a un testimone scomodo, André Sibomana; La morte non mi ha voluta, Yolande Mukagasana; Ti seguirò oltre mille colline. Un'infanzia africana, Hanna Jansen; La lista del console: cento giorni un milione di mori, Pierantonio Costa e Luciano Scalettari; Il sangue del Ruanda. Processo per genocidio al vescovo Misago, Augusto D'Angelo; Lo sguardo oltre le mille colline, Ivana Trevisani
[modifica] Narrazioni
Non si sa mai perché si torna, Paolo Sormani; L'ombra di Imana, Véronique Tadjo
[modifica] Riferimenti
- ↑ "[I]t is not surprising that we [gli USA] have stayed out of Darfur. That, truly, is Rwanda’s lesson: endangered peoples who depend on us for their salvation stand undefended." (Talk of the Town: Comment: Just Watching)