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Diceria dell'untore

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Diceria dell'untore è un romanzo di Gesualdo Bufalino. Concepito e iniziato nel 1950, venne ripreso dall'autore nel 1971 passando attraverso innumerevoli stesure prima di essere finalmente pubblicato a Palermo da Sellerio Editore nel 1981 in seguito alla segnalazione di Leonardo Sciascia al quale si deve la scoperta letteraria dello scrittore. Il romanzo ebbe un immediato successo di critica e di pubblico e vinse il Premio Campiello lo stesso anno.

Nel 1990 dal libro venne tratto un film, per la regia di Beppe Cino, con Remo Girone, Lucrezia Lante della Rovere, Franco Nero, Vanessa Redgrave e Fernando Rey.

Indice

[modifica] Trama

La vicenda, basata su elementi autobiografici, si svolge nel sanatorio per tubercolosi della Rocca, sulle alture di Palermo nell'anno 1946 e il protagonista è un reduce di guerra. Nel sanatorio trova altri reduci, tra cui il colonnello, Sebastiano, i due Luigi, l'Allegro e il Pensieroso, Giovanni, Angelo e il cappellano, frate Vittorio, anche loro ammalati di tisi.

[modifica] Primo capitolo. Le prime settimane di ricovero alla Rocca

In questo capitolo, Bufalino descrive le sensazioni, i sentimenti e le riflessioni fatte durante le prime settimane di ricovero. Sapeva che era malato ma non si rassegnava alla tubercolosi. Benché rassegnato al suo status e alla possibile morte che lo attendeva, rifletteva che:

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«Non serve mai, solo al fine di consolarsene, nobilitare un destino che ci è giocoforza patire»

non si arrendeva alla malattia e nutriva speranze di guarigione e pensava:

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«spiavo di soppiatto le risorse di scampo che mi restavano, alzavo le braccia solo per finta.»

Se ne stava rinchiuso nella sua stanza 7 bis, evitando:

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«...di colluttare, oltre che con la mia, con la dannazione e salvezza degli altri: del dottore, del frate, della ragazza.»

[modifica] Secondo capitolo. Mariano Grifeo Cardona di Canicarao, Il Gran Magro

Il "Gran Magro" era il sopranome del primario del reparto dei malati di tubercolosi. Aveva un fisico alto, due mani «di perfida esiguità» sul pomo di un bastone. E nei primi tempi il Gran Magro andava a trovare spesso il protagonista perché con lui giocava a scacchi, parlando spesso di Dio.

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«Esiste, esiste: non c’è colpa senza colpevole. [...] No, ragadi siamo, ragadi sopra il grugnoculo di Dio, caccole di un talpa enorme quanto tutto, carni crescenti, pustole, scrofole, maglignerie che finiscono in oma, glaucomi, fibromi, blastomi»

[modifica] Terzo capitolo. I suoi amici malati

Dopo qualche settimana di solitudine il protagonista scese in fretta fra la gente poiché «era troppo vigliacco per morire a rate». Fece amicizia con alcuni dei malati dell'ospedale fra cui:

  • Angelo Sciumè ( 19211946)
  • colonnello Pasquale Iozzia (1887 – 1946)
  • Giovanni Pizzorno (1920 – 1946)
  • Adelmo Scalia (1933 – 1946)
  • Sebastiano Mancuso (1918 – 1946)
  • Luigi De felice ( 1922 – 1946)
  • Luigi Prestifilippo ( 1922 – 1946)
  • Il Gran Magro (1880 – 1946)
  • Marta Levi (1917 – 1946)

Il primo a morire fu Giovanni, perito agrario di Cefalù:

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«Floridissimo a guardarlo [...] Ignaro che qualcuno nel suo arcano regime l’aveva privilegiato su tutti, e che sarebbe stato il primo morire.»

Angelo diceva che:

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«la morte è un paravento di fumo fra i vivi e i morti. Basta affondarci la mano per passare dall’altra parte e trovare le solidali dita di chi ci ama»

Luigi, il Pensieroso, coniava una freddura:

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«Rosso di sera, bel tempo si spera.»

Luigi, l'allegro, diceva:

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«Arrivano i nostri e addio, poveri cocchi.»

[modifica] Quarto capitolo. Le escursioni a Palermo

Qualche volta i malati, dopo aver terminato la cura, se ne andavano in città per ricrearsi; anche il protagonista se ne andava al porto per incontrare qualche donna del luogo e distrarsi un po’ dalla vita monotona e grigia dell’ospedale:

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«Oppure si finiva nel quartiere del porto, a cercarsene qualunque, ma di carne vera. Bisognava ogni tanto, era anche il consiglio del Gran Magro.»

[modifica] Quinto capitolo. Padre Vittorio

Il protagonista conosce anche un frate, Padre Vittorio che proveniva dal Veneto, dalle parte di Trento forse perché voleva vivere in una terra:

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«di crete e di ulivi, una Giudea tutta triboli, come certe chiuse di qui, che uno scisma di venti minuziosamente dilania.»

Molte volte entrambi discutevano su Dio, e sulla fede. Mentre Padre Vittorio voleva convincere il protagonista di avere fede in Dio, il protagonista gli faceva delle obiezioni sulle letture del vangelo:

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«Fu un duello di ciechi, m’accorgo ora. Di spadaccini ciechi che si inseguono e si cercano impunemente, con fendenti all’impazzata, sulle tavole di un palcoscenico.»

Il protagonista scoprì anche un diario di Padre Vittorio dove lesse qualche frase come questa: «Com’è difficile, Dio», «La morte è un taglialegna, ma la foresta è immortale»; «Dio, gigantesco eufemismo»; «La morte naturale non esiste: ogni morte è un assassinio. E se non si urla, vuol dire si acconsente».

[modifica] Sesto capitolo. Marta Blundo

Il Gran Magro, oltre ad essere il dottore del reparto, era anche il regista e il direttore del teatro dell’ospedale, dove lui trovata gli attori e sceglieva anche i racconti da recitare sul palcoscenico. Il protagonista, spinto dal suo carattere volpino e cialtrone, una sera, poiché voleva conoscere qualche donna, scese al teatro dell'ospedale e vide che sul palcoscenico si stava esibendo una giovane donna in un ballo accompagnato da una musica. La giovane mostrava fatica a saltare e girare dietro la musica, ma il Gran Magro la incitava a continuare a ballare. Alla fine dello spettacolo tutti applaudirono e il protagonista preso da una forte passione verso la ballerina la andò a trovare nel suo camerino dove si stava cambiando di abiti.

Egli allora le disse:

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«Marta, devi uscire con me. Ti resta poco tempo, ci resta poco tempo. E abbiamo vent’anni.»

Ma arrivò di gran fretta il Gran Magro il quale allontanò il protagonista dicendogli:

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«Quella, strichten verboten.(Quella non si tocca). E non fiatarmi addosso, Almaviva tossicologo.»

[modifica] Settimo capitolo. L’amore per Marta

In questo capitolo, il protagonista racconta come è nato il suo amore per Marta. Egli pensa che:

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«Poiché, insomma, non s’accomodava con l’economia del mio tempo il prolungarsi di uno stato d’estasi e vita nuova, quando a me, al contrario, serviva un corpo da consumare subito, prima che il nostro vagone piombato si fermasse al deposito della stazione d’arrivo.»

Allora chiese ad Adelina, la giovane malata che stava con Luigi l’allegro, notizie su Marta. E Adelina gli disse che Marta era di Sondalo, e che prima ballava alla Scala e:

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«Dicono di un capitano delle Esse Esse, di una villa su un lago. E cose peggiori. Certo i capelli le sono ricresciuti da poco sul capo rasato.»

Da allora in poi l’amore per Marta invece di scemare aumentò sempre di più. Un giorno ebbe anche l’occasione di sottrarre due lastre delle radiografie di Marta, allora si rese conto del danno irreversibile ai suoi polmoni. Ma mentre stava guarda le lastre arrivò padre Vittorio, con il quale ebbe la solita discussione su Dio e sulla fede. Alle richieste di padre Vittorio il protagonista rispondeva con altre obiezione:

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«Ci scambiavamo queste battute senza collera, ormai, ma anzi con un affetto nella voce, da avversari che sanno, ciascuno per la sua parte, d’essere nel giusto solo a metà.»

[modifica] Ottavo capitolo. Il ritorno al suo paese

Padre Vittorio morì pochi giorni dopo. Intanto luglio avanzava e anche l’estate si faceva più calda. Siccome l’amore per Marta aumentava sempre di più, tanto che le lastre gli divennero:

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«una sorta di inaudito feticcio amoroso.»

Quindi il protagonista per dimenticare Marta decise di ritornare al suo paese. Qui incontrò i suoi genitori, oramai invecchiati, e ritrovò la sua stanza rimasta uguale dal momento della sua partenza. Ritrovò i vecchi amici, ma si rese conto anche:

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«Com’è difficile stare morti fra i vivi: un astruso gioco d’infanzia è diventato, vivere, e mi tocca impararlo da grande.»

Riuscendogli difficile vivere con gli altri decise di ritornare alla Rocca.

[modifica] Nono capitolo. Il primo pomeriggio con Marta

Dopo il ritorno alla Rocca, il protagonista scrive una lettera a Marta e gliela manda con il bambino Adelmo, il quale gli riportò una breve risposta di Marta che gli diceva che si sarebbero visti la domenica successiva in città.

Trascorsero il pomeriggio in città a girare per le strade e Marta gli parlò di sé e della sua vita prima di finire all’ospedale. Tra un attacco di tosse e l’altro Marta gli disse:

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«A me è sempre piaciuto contraffarmi e mentire. Tutto ciò che contiene un’ipocrisia mi seduce.»

La sera andarono in un quartiere abbandonato di Palermo per scambiarsi qualche effusione amorosa, ma furono scoperti da una torma di miserabili che li guardavano, così dovettero scappare e rientrare prematuramente alla Rocca. Marta quindi rivelò di non credere d'essere malata:

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«Io non ci credo sempre, specialmente la sera, prima di addormentarmi, quando faccio pace col mondo e lo saluto: buona notte, vestiti, seggiole, macchie sul muro; buona notte, tutte le cose.»

[modifica] Decimo capitolo. L’incontro e lo scontro con Sebastiano

Il protagonista e i suoi amici capirono che Sebastiano era depresso, così un mattino il protagonista prese sottobraccio Sebastiano e lo portò in un angolo dove c’era un po’ d’ombra. Sebastiano, guardando il mare all’orizzonte, gli disse che lì si faceva i bagni e che aveva i polmoni di un palombaro; erano già quattro anni che stava in ospedale e che non aveva mai toccato una donna. Il protagonista cercò di incoraggiarlo e di rassicurarlo, ma poi la discussione degenerò in lite e in una piccola lotta. Si rappacificarono, poi entrarono in una stanza dove videro un giaciglio gualcito e sparsi ovunque mucillagini e capelli. Sebastiano disse:

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«Quando mi rubano tutto, voglio pure regalare qualcosa.»

Il protagonista non capì cosa volesse dire:

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«ma gli misi una mano sulla spalla e pietosamente gli dissi: "Ti passerà".»

[modifica] Undicesimo capitolo. La seconda giornata con Marta, in città

Il protagonista riuscì ad avere un altro appuntamento con Marta la domenica successiva. Trascorsero la giornata parlando, finendo sul molo del porto. Questa volta è il protagonista che le racconta la sua fanciullezza... Poi quando videro una camionetta di finanzieri che trasportava un contrabbandiere, Marta commentò:

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«Hanno preso un contrabbandiere. E noi che viviamo di frodo, e trasportiamo una morte di frodo, nessuno ci perquisisce.»

[modifica] Dodicesimo capitolo. Il passato di Marta

Di sera andarono in una stanza ad ore, dove fecero l’amore e ascoltarono una canzone alla radio. Marta raccontò allora la sua vita passata; da bambina abitava con un suo parente e stava in casello per treni. Durante la guerra ebbe una relazione con un ufficiale delle Esse Esse, ma furono scoperti dai partigiani, sorpresi in un sotterraneo di campagna: lei seguì l'ufficiale fino alla fine, fin quando i partigiani decisero di fucilarlo.

Fuggita via verso la città, fu catturata e umiliata dal taglio di capelli come collaborazionista:

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«Infine sputai sangue, e l’epilogo si scrisse da sé.»

[modifica] Tredicesimo capitolo. Il protagonista sente di guarire

Poi:

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«accadde a questo punto, non ne seppi mai il motivo, che lei si rifiutò di continuare a vedermi.»

Morì il giovane Adelmo e così il protagonista non ebbe più la possibilità di comunicare con Marta. Un giorno trovò un messaggio sul tavolo dove c’era scritto che doveva lasciare in pace Marta. Il protagonista capì dalla calligrafia che il mittente era il Gran Magro. Preso di rabbia e di propositi vendicativi, andò nella camera del dottore. Lo trovò in uno stato di trascuratezza e di abbandono, ma con un atteggiamento di comprensione così che il protagonista si calmò e ascoltò con attenzione quel che voleva dirgli. Il Gran Magro rivelò che egli stava per morire mentre lui si sarebbe salvato. Poi in un attimo di abbandono aggiunse:

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«E ora basta, vattene via. Se no c’è questo. Argumentum baculinum. E mi puntò contro scherzosamente il bastone.»

[modifica] Quattordicesimo capitolo. Fuga dall’ospedale

Il protagonista parla con i suoi amici per incontrare nuovamente Marta. Il colonnello gli consiglia di andarla trovare nel reparto femminile dell’ospedale. Il protagonista segue questo piano di attuazione e va a trovare Marta nella sua stanza, la quale lo invita a fuggire assieme:

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«Poiché tutto per noi era perduto, tanto valeva andarsene via in giro, fuori città, a ripassarsi con gli occhi un’ultima volta cielo, terra e mare.»

Il protagonista acconsentì scrivendo un radioso «sì» su un lacerto di carta. Insieme stabilirono la giornata della fuga dall'ospedale...

Fuggirono con una macchina presa a noleggio. Salirono verso le montagne, dove incontrarono una fila di contadini che volevano occupare le terre del barone Trigona. Girovagarono per la giornata. Al tramonto arrivarono in un paese dove presero alloggio in un alberghetto, la cui...

[modifica] Quindicesimo capitolo. La festa del paese

Il mattino seguente, dopo aver fatto l’amore, il protagonista esce da solo per visitare il paese. Si accorge però che le vie erano piene di lampioncini e di tralicci di giochi d’artificio per la festa del santo patrono. Il protagonista mentre assisteva all’uscita del simulacro dalla chiesa, fu raggiunto da Marta che gli disse:

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«Non devi lasciarmi sola mai più.»

Mentre Marta sputava la sentenza di disappunto contro i siciliani, il protagonista ormai cosapevole della sua prossima guarigione, comprese il peggioramento della salute di Marta.

Di sera andarono a vedere uno spettacolo di pupi siciliani: era la storia di La Morti di Acamennoni re. Dopo lo spettacolo i due presero la macchina e discesero verso il mare.

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«Noi scendevamo adagio, a fari spenti, verso il mare, finché la festa fu soltanto dietro di noi una rissa remota di frettolosi splendore.»

[modifica] Sedicesimo capitolo. La morte di Marta

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«Questo fu l’ultimo sorso di luce di Marta.»

Durante il viaggio, Marta cominciò a tossire sempre di più. Finalmente quando arrivarono in un albergo della spiaggia, dove alloggiarono, Marta poté riposarsi. Ma ormai la tosse non finiva più e Marta stava sempre peggio fino a quando si sentì salire alle labbra un irrefrenabile zampillo di rossa schiuma e di morte:

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«Un sangue immenso, seminato di bollicine rotonde, le irruppe dal petto e allagò le lenzuola, enfatico, esclamativo.»

Marta:

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«Era morta, questo era ora il suo stato naturale e pacifico. Come se non fosse stata mai altro: di botto impietrita, uccisa e neutra, una cosa.»
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«Dove sei ora Marta, dove cammini?»

Poi il protagonista iniziò a piangere, rendendosi conto del dolore della perdita. Telefonò all’ospedale e il Gran Magro gli mandò una vettura per riportarli tutte e due alla Rocca.


Arrivarono di sera tardi e il protagonista riconobbe subito l’ospedale dal suo odore:

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«Di formalina e di soave putrefazione.»

Poi vi furono i funerali e il bruciamento degli oggetti lasciati fra cui alcune fotografie di lei con un capitano tedesco. Così il protagonista andando a dormire sentì la pioggia, riflettendo:

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«É piovuto, ecco dunque l’autunno. Bisogna che parta mi dissi, troppo tempo ho perduto fra morti, simulandomi morto, scordandomi dell’ironia.»

[modifica] Diciassettesimo capitolo. La morte del Gran Magro e la partenza del protagonista dall’ospedale

Nelle settimane successive, dopo la morte di Marta, morirono anche tutti gli altri suoi amici:

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«Del resto le loro morti di susseguirono svelte, fu un repulisti, una svendita. Si uccise Sebastiano un mattino, nell’ora in cui le inservienti passano fra branda e branda, sfracellandosi nella tromba delle scale, con un riso senza luce. Morì il colonnello. Morì, dopo il Pensieroso, l’Allegro, come non sopportasse di restar scompagnato. Morì, infine, il nobiluomo Mariano Grifeo Cardona di Canicarao.»

Suor Crocifissa chiamò il protagonista e gli disse che il Gran Magro voleva vederlo. Lo trovò moribondo, ma egli gli consegnò il fascicolo di Marta e dei quaderni di poesie. Il protagonista lesse qualcosa ma si fermò subito perché capì che erano delle oscenità. Poco dopo il gran Magro morì:

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«Provò con le labbra incapaci un sorriso, che s’interruppe a metà, mentre una minuscola goccia d’umore dall’angolo della bocca gli sfuggiva sul collo con rivoltante lentezza, e il supremo gong della morte gli risuonava nel petto.»


Qualche settimana dopo una mattina di novembre il protagonista ormai guarito lasciò l’ospedale. Aspettò il convoglio che lo portò in città, ma prima di salire sul predellino fece a tempo:

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«Per guardare un’ultima volta fra pini, palme e cipressi, la Rocca.»

[modifica] Alcuni motivi di bellezza

[modifica] Il primo motivo di bellezza

Il primo motivo di bellezza di Diceria dell’untore è dato certamente dal linguaggio omogeneo, coeso, teso, vibrante e dalla struttura sintattica enfatica, esclamativa, della scrittura. Il lessico del romanzo è pieno di parole, rare, difficili, inconsuete, auliche, raffinate, aspre, ostiche, quasi ostili alla lettura, che a primo impatto si presentano difficoltose e lente, ma piene di fascino letterario.

Esempio di parole ostiche, rare e auliche sono: "uberius" , "commendatizie", "effratta", "morione", "escreato", "alea", "arce", "Citera", "propalava", "d’affralito", "consunzione", "melassa", "scialo", "cociore", "aggetti", "beni parafernali", "provvisione", "smussatura", "cafarnao", "sinopie", "canea", "piatto spaso", "paraffo", "cotta", "bastia", "strombi", "cabaletta", "ancile", "ciborio", "amba".

[modifica] Il secondo motivo di bellezza

Il secondo motivo di bellezza è la costruzione sintattica, che presenta un periodare complesso e ricco di subordinate che rendono ancora più lenta la lettura, ma aumenta ancor di più il fascino; periodi lunghissimi che hanno un andamento lungo e tortuoso, ma di crescente bellezza.

[modifica] Il terzo motivo di bellezza

Il terzo motivo di bellezza è dato dalla ricchezza di figure retoriche che danno al romanzo quel fascino di bellezza spigolosa e di barocco borrominiano. Le figure retoriche più frequenti sono: gli ossimori, le metafore, le paronomasie, le allitterazioni, le similitudini e le sillessi. Francesca Caputo scrive nella introduzione al romanzo:

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«Minuziosa inoltre la cura che rivolge a sostantivi, aggettivi, e strutture verbali – spesso sostituiti per instaurare forme sostenute e auliche – alla loro rispettiva posizione all’interno della frase nella ricerca di ritmo, musicalità, o volute spezzature ( quasi sistematica l’anasfrofe, omoteleuti, paronomasie costellano la sua prosa)»
(Diceria dell’untore, Introduzione,pagina VII (Bompiani editore))

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  • Esempi di ossimori: «Oh, sì, furono giorni infelici, i più felici della mia vita»; «feticcio amoroso», «rabbiosa tenerezza», «miele marcio», «giovinezza cariatao», «buio sorriso», «vanitose agonie», «torva solennità», «un'aureola quasi di serpi pacificate», «efferato silenzio», «velenosetta dolcezza», «oh, il mio impaziente paziente».
  • Esempi di paronomasia: «Marta-morta», «ambascia e ambageo», «alea e canea», «propalare e propagare», «gragnuola e grugnoculo», «canizie e canicola».
  • Esempi di sintagma creativi originali: «cascàmi della storia», «uno sfrido umano», «nobilitare un destino che è giocoforza patire», «l’attesa della morte è una noia come un’altra».
  • Esempi di allitterazione: «s’abbrancò addosso», «subodorando subdolo», «riparo e riposo», «abbrancare e imbracare»
  • Ecco alcuni esempi di endiadi: «voci biondine e ansiose, narcise e civette, la fatua e la dannata».

[modifica] Il quarto motivo di bellezza

Il quarto motivo di bellezza è dato dal tono emotivo del romanzo, imperniato sulla melanconia dei personaggi e del protagonista, dal tono rievocativo dell’esperienza passata ma rimasta ancora indelebile. Il tono emotivo del protagonista mantiene la nostalgia di un passato brutto, ma vissuto intensamente tra la vita e la morte. I tempi verbali sono per lo più al passato e indicano un tempo che è già passato ma ancora presente, vivido nella vita attuale del protagonista.

[modifica] Il quinto motivo di bellezza

Il quinto motivo di bellezza è dato dal valore della vita che viene cercata e difesa in tutti i modi e a tutti i costi, da tutti i malati, e viene apprezzata fino all’ultimo minuto di essa. Su questo tema sono bellissimi due discorsi fatti: uno dal protagonista nel capitolo decimo, quando parla con Sebastiano e l’altro fatto da Marta sulla propria vita passata.

Ecco cosa dice il protagonista a Sebastiano per incoraggiarlo a vivere e fargli passare la crisi dovuta alla sua lenta e incurabile malattia:

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«Ma siamo vivi! In questo istante sei vivo. Guarda la luce, come ti grida nelle pupille. Sei vivo e non è stupefacente? Qui e ora, nel buco d’aria che riempi col volume del tuo corpo, e che possiedi tu solo nell’universo degli universi, non sei forse Dio? Questo è il miracolo, questo è il mistero.»

Ecco cosa dice Marta sul valore della sua vita e della vita in generale:

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«Ascoltami aggiunse, con una torva solennità, e ricordati. Io sola sono vera e sarò vera finché vivo. Voi, gli altri, siete appena barlumi e finzioni che sento respirare e parlare al mio fianco. E la storia non riguarda che voi, io non so cosa vuol dire. Capiscimi: nei miliardi di secoli passati e futuri io non so trovare evento più importante della mia morte. E tutte le carneficine e derive di continenti e scoppi di stelle sono soltanto canzonetta e commedia, al confronto di questo minuscolo e irrepetibile cataclisma, la morte di Marta. Cosa non farei per ritardarlo d un attimo. La puttana, la spia, l’aguzzina. E chissà che non l’abbia già fatto.»

[modifica] Il sesto motivo di bellezza

Il sesto motivo di bellezza è il tema della malattia e che incute paura, panico e terrore nei vari personaggi. Eppure ogni personaggio reagisce in modo differente alla malattia e alla inevitabile morte per consunzione.
Sebastiano si sfracella nella tromba della scala.
Marta fugge via per rivedere un’ultima volta il cielo, la terra e il mare.
Il Gran Magro si abbandona al suo stato di naturalezza senza speranza in Dio e senza opporre nessuna resistenza alla morte, come un fatto naturale.
Padre Vittorio accetta la morte come un atto di liberazione e di ricongiunzione con Dio.
Il colonnello muore a causa della malattia per un insulto che chiamarono neuma spontaneo.
Luigi, l’allegro, morì come non sopportasse di restar scompagnato.

[modifica] Il settimo motivo di bellezza

Il settimo motivo di bellezza è dato dalla descrizione della morte. Bufalino descrive in modo superbo la morte di alcuni protagonisti, dandocene una trasformazione naturale nell’attimo preciso che va dalla vita alla morte.
Ecco la descrizione della morte di Marta:

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«Era morta, questo il suo stato naturale e pacifico. Come se non fosse stata mai altro: di botto impietrita, uccisa, e neutra, una cosa.»

E la bellissima descrizione del Gran Magro:

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«Rimase così, con una sorta di ghigno, non perverso ma lieto, dipinto, sul viso, un ghignetto che gli conoscevo, così vivido che mi ci volle tempo per capire che era finita, e che ogni minuto, a partire da quello, sarebbe stato uguale per lui; una catena uguale di neri minuti, un fiume senza sponde di identici eterni, in accaduti minuti.»

[modifica] L’ottavo motivo di bellezza

L’ottavo motivo di bellezza è dato dall’insuperabile descrizione di certi luoghi e paesaggi, del clima come del tramonto:

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«Intanto l’aria, benché il giorno volgesse alla fine, appariva ancora tutta stordita di luce… E quel sole, galeone del re di Spagna, che affondava in fiamme sul mare; quei parapetti e obelischi e crollanti navate di nuvole, da cui pareva pendere e imputridirsi un trofeo di ermellini e di rose.»

E la sublime descrizione del mare, quando arrivano sulla spiaggia:

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«Era calata la sera, e il mare, che mille volte in passato m’era parso nascere dalla curva delle colline domestico e balneare come nelle guide, non ci fu verso qui di che risparmiasse uno solo dei suoi veleni: né il borbottio dei suoi contrabbassi arrochiti; né le stereotipie delle onde contro la riva, né il secolare malodore di calafature e disastri.»

[modifica] Il nono motivo di bellezza

Il nono motivo di bellezza è dato dalla saggezza popolare. Una bella frase è detta dal puparo a commento dello spettacolo dei pupi:

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«Ah, i destini degli uomini, una spugna bagnata li cancella, come una pittura.»

Ancora più belle sono le considerazioni del Gran Magro sulla morte di Marta:

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«Non giustificarti ragazzo. Dopotutto è meglio così. È morta fin troppa tardi. Ma nessuno ha orecchio a capire la musica della propria esistenza e a fermarla al momento giusto. E per lei quel momento era già venuto due volte.»

E poco oltre preannuncia la sua sconfortante e inevitabile morte:

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«Pazienza, non ora. Del resto non manca più molto, la mia musica stessa è agli sgoccioli. Una fuga, è stata, una fuga. Ho corso attraverso la vita, senza capirci niente. Ma ormai, fra una o due parasanghe, c’è il mare, le saette di Artaserse non mi raggiungono più.»

Un'altra bellissima considerazione è quella sulla causalità dei incontri tra le persone. Ecco il bellissimo passaggio:

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«Certo oscilla fra contrattempi e incastri senza numero il gioc'a tombola della nostra vita. Non si conosce mai chi si vuole, ma chi si deve o chi capita, secondo che una mano sleale ci mescoli, accozzi e sparigli, disponendo o cassando a suo grado gli appuntamenti sui canovacci dei suoi millenni. Così, per quanto io da moltissimi anni sia tornato, come già nell'adolescenza, a un'opaca negazione del Cristo, è a quell'incontro imprevisto, estratto da un calcolo o caso fra gli infiniti possibili, che devo di averci pensato, per l' unica volta, con delicatezza e sgomento, fino al giorno in cui, nell'attimo stesso della morte del mio amico, mi ritrovai più asciugato di un ciottolo, e seppi che fin allora il mio cristianesimo non era stato che una gravidanza supposta, un'isteria di tre mesi. Oppure solo il vizio di ascoltare, a mezzo metro da me, commovente e barbuto, un giovane apostolo che mi raccontava nell'altra la nostra stessa Passione.»

[modifica] Il decimo motivo di bellezza

Il decimo motivo di bellezza è dato dalla descrizione del protagonista: dai suoi sentimenti, dal valore pratico della vita, fino alla conclusione finale, dove esprime il passaggio da uno stato speciale (di rischio di morte) a quello normale della vita. Bufalino entra dentro il mondo interiore del personaggio e riesce a descriverlo come un uomo comune, con i pregi e con i suoi difetti e i limiti umani. Il protagonista non è l’eroe senza macchia e senza paura, anzi è l’esatto opposto, è un uomo pieno di paure, e mostra il suo carattere cinico e pragmatico. Ecco il lacerto dove Bufalino descrive il cinismo del protagonista:

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«Poiché, insomma non s’accomodava con l’economia del mio tempo il prolungarsi di uno stato d’estasi e di vitanuova, quando a me, al contrario, serviva solo un corpo da consumare subito, prima che il nostro vagone si fermasse al deposito della stazione d’arrivo.»

Il protagonista è talmente cinico che non si fa scrupoli quando costringe Cristina, la serva di quarant’anni di casa di suo padre, ad accovacciarsi sul pavimento per rovesciarle sulla faccia il grembiule come un bavaglio.
Eppure attraverso l’esperienza della malattia il protagonista a poco a poco cambia la sua visione di vita e alla fine ne esce completamente cambiato; acquista maggiore consapevolezza della vita e della morte. E nella pagina finale del libro, Bufalino descrive compiutamente l’uomo nuovo, non più il cinico, ma l’uomo maturo che si conosce dentro e che conosce gli altri, l’amore e la morte e sa che la sua esperienza di malato ha meritato il sacrificio con cui pagare il passaggio nel nuovo regno dei morti.
Ecco la pagina finale del libro:

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«Io ne ero evaso, per chissà quale disguido o colpo felice di dadi, ma, anche se salvo, più derelitto e più triste.»

Il protagonista matura se stesso e diventa consapevole della sua malattia e comprende che si è salvato solo per dare testimonianza che qualche volta si può sconfiggere la morte. Ecco il passo conclusivo del romanzo:

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«Per questo forse m'era stato concesso l'esonero; per questo io solo m'ero salvato, e nessun altro,dalla falcidia, per rendere testimonianza,se non delazione, d'una retorica e di una pietà. Benché sapessi già allora che avrei preferito starmene zitto e portami lungo gli anni la mia diceria al sicuro sotto la lingua, come un obolo di riserva, con cui pagare il barcaiolo il giorno, in cui mi fossi sentito , in seguito e meno remissibile scelta o chiamata, sulle soglie della notte.»

[modifica] L'undicesimo motivo della bellezza

L'undicesimo motivo della bellezza è dato dalla sapiente descrizione di questa trasformazione del protagonista. Bufalino descrive molto bene il passaggio del protagonista da: «volpino e cialtrone che era in me» a «ciarlatano eloquente» al desiderio di possedere il corpo di Marta, anche se malato:

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«Che strano innamorarsi di un corpo che mangia, secerne, si svuota: denso di villi, papille, isole di Malpighi.»

E la bellezza della descrizione della notte d'amore passata nella camera a ore:

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«Stesi l'uno accanto all'altra, dopo il piacere (solo mio credo, non d'entrambi, mi parve) una luce senza vigore, gocciolando dal cartoccio di giornale avvolto alla lampada, ci si smagliava addosso in matasse e garbugli tremanti, con effetti di lanterna magica che bastava la mia mano a turbare.»

Da questo carattere intriso di edonismo immediato, il protagonista passa alla considerazione della vita come un viaggio difficile da superare che percorre con coraggio e senza viltà, non conoscendo cosa ci aspetta dopo la morte. Ecco il passo definito di queste considerazioni:

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«Io avevo compiuto un viaggio importante, ma ora era difficile capire se fra gli angeli o sottoterra; e se ne riportavo un bottino di fuoco o solo un poco di cenere sotto grigi bendaggi di mummia. "Veni foras" mi ordinai nel pensiero. "Lazzaro, vieni fuori." E mi rituffai nell'aria di fuori, la sentii con riconoscenza aprirsi amica ad accogliermi, farmi posto dentro di sé, come la sabbia, ad un corpo nudo.»

Il protagonista comprende il passaggio dalla morte alla vita mentre era in ospedale e cercava di educarsi alla morte. Ecco il lacerto dell'educazione alla morte:

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«Perfino il ricordo si sarebbe consumato, una vacanza era stata, una debolezza del cuore che voleva educarsi alla morte.»

Il protagonista doveva abituarsi alla vita dopo aver assaporato la morte:

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«Dove trovare il me steso ragazzo, come sanarlo di quell'infezione: l'ingresso dell'idea di morte nell'intimità di un cuore innocente?»

E di fronte a questa guarigione insperata il protagonista deve riinnamorarsi della vita, pur sentendo verso i suoi amici malati un senso di colpa indelebile. Ecco i pensieri del protagonista dinnanzi alla guarigione:

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«Vero è che di fronte all'impensato regalo che il mio corpo pareva promettermi – beni parafernali non previsti dal contratto – io non riuscivo a sottrarmi a un sentimento di scontento e di colpa. Pensando ai compagni, ai quali un'identica immunità non sarebbe stata irrogata, e a me stesso , al compito che m'incombeva, sancito dalle parole del Magro, di rifare da cima a fondo i miei conti e riinnamorarmi di me.»

Il protagonista è conscio di passare da malato a sano, passando a un totale sgravio di responsabilità dovuto alla malattia, come dice quando rientra alla Rocca:

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«E invece, ora rientrato alla Rocca, che sentimento m'aveva invaso, di delega totale e di sgravio felice! Come ora mi attraeva qualunque specola da cui si potesse, passivamente osservare il guazzabuglio del mondo e riderne e piangerne con misura, come si conviene quando si fa eco alle risa e alle lacrime degli altri.»

Da questa posizione di malato accetta la vita mesta e normale di tutti i giorni:

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«M'aspettava una vita nuda, uno zero di giorni previsti, senza una brace né un grido. Uscire mi toccava dalla cruna dell'individuo per essere uno dei tanti della strada, che camminano umanamente la loro piccina saviezza d'alito e d'anni. Ma, allo stesso modo dell'istrione in ritiro che ripone nel guardaroba i corredi sanguinosi di un Riccardo o di un Cesare, io avrei serbato i miei coturni, e le tirate al proscenio dell'eroe che aveva presunto di essere, in un angolo della memoria.»

Il protagonista, insomma, ha maturato un'esperienza indelebile che ha il valore di un obolo di riserva, ma con il quale può pagare il barcaiolo che lo porta nell'altro mondo, nell'ultima e definita chiamata sulle soglie della notte.

[modifica] Alcuni giudizi critici

[modifica] Maurizio Dardano

Maurizio Dardano dà questo giudizio critico su Diceria dell'untore:

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«L'elemento che contraddistingue, più di ogni altro, l'opera, è l'uso di uno stile esuberante e barocco, che ben si sposa con l'atteggiamento esistenziale dei personaggi del romanzo. L'occupazione prevalente degli ospiti della "Rocca" è, infatti, parlare, divagare, raccontare, inventare, elaborare cioè un sistema entro il quale riconoscersi per continuare a esistere. La Diceria ha ambientazione siciliana, ma coloro che vivono nel sanatorio sembrano sospesi in una dimensione posta al di fuori dello spazio e del tempo, in cui predomina il binomio distruzione-memoria e in cui il ricordo rappresenta l'unica possibilità di sottrarsi alla morte. I temi presenti nell'opera di Bufalino mettono in luce come la sua sia una scelta di raffigurazione del reale in chiave autobiografica, attenta ai grandi nodi esistenziali, che acquistano maggiore profondità negli spazi chiusi in cui la vicenda si svolge.[1]»

[modifica] Guido Baldi

Guido Baldi dà il seguente giudizio critico:

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«Bufalino è uno scrittore di sterminate letture e di raffinata cultura europea. Il libro che gli ha dato notorietà, e che resta la sua prova significativa, Diceria dell'untore, si collega a una tematica largamente presente nella letteratura del novecento, quella della malattia come metafora di condizione esistenziale, di un nemico metafisico che incombe sull'uomo. Bufalino adotta uno stile alto, immaginoso e ricco di metafore, dall'aggettivazione preziosa e ridondante, con risultati di barocca sontuosità. [2]»

[modifica] Giulio Ferroni

Giulio Ferroni dà questo giudizio critico:

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«Il romanzo Diceria dell'untore segue attraverso una voce in prima persona, la vicenda di un amore disperato in un ospedale per tubercolotici, con un suggestivo sviluppo di risentimenti, di desideri, di angosce, tra tenerezze e sensi di colpa, in un confronto senza remissioni con a morte, sostenuto da una scomposizione del tempo narrativo. Era un esempio notevolissimo , quasi "fuori stagione" di una narrativa esistenziale, basata su personaggi costretti a subire un potere metafisico assurdo e nemico. Contro questa forza indecifrabile i personaggi di Bufalino reagiscono con aggressività, con inganni e mistificazioni, con atteggiamenti eccessivi e melo drammatici, con una recitazione sostenuta da sottile sapienza letteraria. [3]»

[modifica] Francesco Puccio

Francesco Puccio dà questo giudizio critico:

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«Il romanzo, condotto in retrospettiva e in prima persona dal protagonista, si muove su un vasto orizzonte ove c'è spazio per riferimenti autobiografici (la tubercolosi contratta in guerra) e letterari ( Manzoni, Mann), ma ove si collocano pure i grandi temi decadenti della morte e della malattia, quest'ultima sentita come privilegio dello spirito, come condizione abnorme della coscienza che consente possibilità conoscitive escluse allo stato di sanità. [4]

[modifica] Salvatore Guglielmino

Salvatore Guglielmino dà il seguente giudizio critico:

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«Diceria dell'untore è un'opera abbastanza singolare. Se da un lato essa si inserisce in quella linea di restaurazione, dall'altro, sul piano formale, questo recupero è realizzato con una ricchezza e sontuosità di scrittura oggi insolite, con una prosa di altri tempi, di intensa suggestione, perennemente tesa in una dimensione metaforica, giocata su sapienti modulazioni e clausole da prosa d'arte.[5]»

[modifica] Attilio Cannella

Attilio Cannella dà il seguente giudizio critico:

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«La «Diceria» del titolo è un termine ricercato per indicare il racconto del protagonista sulla sua esperienza; quanto all'untore (un omaggio al Manzoni) esso va messo in riferimento alla "educazione alla catastrofe" di cui parla lo scrittore, allude cioè a un salutare contagio diffuso nel protagonista nella vita di tutti i giorni; il pensiero della morte che ci aiuta a vivere. [6]

[modifica] Giuliano Manacorda

Giuliano Manacorda dà il seguente giudizio critico:

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«La "Diceria" racconta in prima persona la permanenza nell'immediato dopoguerra, in un sanatorio siciliano, con il continuo spettacolo della degradazione e della morte, e l'indeprecabile approssimarsi alla fine – Gradus ad Avernum – cui fuggirà solo il narratore per farsi testimone di questo modo patetico e repellente di non vivere. E patetica e repellente fra tutte le storie è la storia del suo amore per la più sicura candidata alla morte, una storia fatta di slanci e di menzogne, ma non di inganni se quella passione è la scelta per entrambi necessaria a ricrearsi una parvenza di vita. Bufalino la racconta forse con qualche compiacimento per l'abbondanza e l'eleganza del suo dire, ora arricchito di volute barocche ora teso in un freddo illuminismo; ma a trattenerlo al di qua di eventuali eccessi c'è, per un verso, una solida cultura che traspare di frequente ma senza mai eccedere e, per un altro verso, una presenza del protagonista a sé stesso, un sapersi guardare anche con ironia che non stempera ma di certo allenta di quando in quando il senso della pena e della morte. [7]

[modifica] Marta Samburgar

Marta Samburgar dà il seguente giudizio critico:

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«La scrittura di Bufalino è tutta intrisa di metafore, che forzano il senso letterale dei termini e delle immagini e si presta a molteplici chiavi di lettura. Inoltre, è uno stile basato sulla parola: molto curata è la scelta dei vocaboli, lo studio dei suoni creati, la riflessione sulle immagini evocate. La parola poi non è solo mezzo per "dire", ma è la stessa sostanza dei personaggi del libro: essi parlano in un tono febbricitante, declamatorio, teatrale e ansioso che riempie le loro bocche di frasi come cibo dal quale trarre l'ultimo nutrimento. [8]

Questa necessità delle parole è espressa dallo stesso Bufalino:

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«Ma soprattutto da un'esigenza di parole che voleva liberarsi e che coagulai attorno ad eventi di morte e di estate, e sotto il segno, metaforico e reale, del contagio. Il contagio, difatti, involontario o voluto, è il connotato stupendo di ogni peste e della storia. Per esso un malanno individuale ha il potere di tramutarsi in calamità collettiva, ogni infezione è una educazione. [9]»

[modifica] Geno Pampaloni

Geno Pampaloni dà questo giudizio critico su Diceria dell'Untore:

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«In questo senso Diceria dell'untore (1981) è un unicum nella letteratura del ventennio; perché l'autore rivive, con lo spirito disincantato della generazione che è stata attraversata dalla guerra, la generazione dei puri e disinteressati amori letterari della giovinezza; quasi che il lungo silenzio, la vita appartata di professore di provincia, gli avessero consentito di preservare incontaminate le sue prime passioni. Con ciò non intendo dire che egli sia un revenant: ma uno scrittore che porta nei nostri anni il meglio della letteratura degli anni trenta... A una simile complessità spirituale fa riscontro la complessità stilistica della lavoratissima prosa: immagini, ellissi, metafore, iperboli, vi si susseguono con continui cambi di passo e di ritmo, senza peraltro che si abbia mai la sensazione del gioco, dello sperimentalismo fino a stesso. [10]

[modifica] Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino dà delle indicazioni preziose per capire e orientare il lettore nella comprensione del genere del romanzo. Egli ha scritto un'appendice dove spiega le sue idee sul genere del romanzo e racconta anche dei particolari aneddoti per chiarire l'origine del libro: chiarisce quali erano le intenzioni che voleva ottenere e dà una serie di spiegazioni sui vari personaggi del libro. Ecco in sintesi alcuni stralci di questa Appendice.

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«Iniziata nei primi anni cinquanta e subito interrotta, quindi, più volte riscritta, la Diceria passò attraverso vicissitudini multiple prima della stesura finale e della stampa (1981). In occasione della quale l'autore, al fine di non sovraccaricare al di là del lecito un libro di per sé eccessivo e lussuoso, decise di espungerne un certo numero di orpelli inizialmente previsti.»

Questi orpelli erano le poesie di ogni capitolo e le epigrafi, le lapidi e le varie. Poi scrive una breve introduzione con il titolo Istruzione per l'uso, dove scrive e chiarisce alcuni particolari del romanzo:

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«Chi scrive si compiace sotto sotto di questa mansione d'oracolo e del privilegio di parlare a fior di labbra, con voce contraffatta, e di tacere quando gli pare. Alle volte, come nelle pagine che precedono, nate da una ruminazione solitaria e originariamente non destinate alla stampa, l'eccesso di confidenza risulta addirittura offensivo.»

Indica anche temi del romanzo:

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«Il tema della morte, Eros e morte, il tema della malattia, il tema della guarigione come infrazione, tradimento di un patto mafioso, fra moribondi, sospensione a divinis, degradazione, il tema dell'occultamento: il sanatorio non solo come campo di stermino, ma anche isola, fodero, castello d' Atlante, il tema del processo, il tema del teatro, il tema della memoria, come luogo di incantesimo, il tema del sogno. Il libro incomincia con un sogno. E se tutto fosse un sogno? Ogni ricordo, in fondo, è un favola.»

L'idea del libro:

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«Ma soprattutto da una esigenza e da un turgore espressivo: c'era in me un grumo di parole che voleva liberarsi e che coagulai attorno ad eventi di morte e di estate, e sotto il segno, metaforico e reale, del contagio... Esorcizzare tale esperienza, annegandola in un'aria fantastica e magica che la disarmasse; e sfogare insieme quel turgore di parole che dicevo sopra: questa la doppia spinta che mi costrinse ad esprimermi. E dopotutto il registro alto, lo scialo degli aggettivi, l'oltranza dei colori, mi pareva, e pare, il modo che ci resta per contrastare l'ossificazione del mondo in oggetti senza qualità e per restituire ai nostri occhi ormai miopi il sangue forte delle presenze e dei sentimenti.»

Qualche intenzione:

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«Una era di scrivere più che un romanzo, un poemetto narrativo. Nel senso che l'abbandono lirico e fantastico prevalesse sul vero e proprio ingranaggio di eventi. Poi l'opera assunse e sopportò anagrafi più complicate: di romanzo pedagogico.»

Altra intenzione:

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«Di ricercare nel lirismo esibito e nell'artificio del "recitar cantando" gli stessi effetti di distacco da una materia dolente che altri nel "recitar straniato". Il luogo stesso dell'azione, poi, è una Sicilia di fantasia, fra fiaba e orrore, con personaggi estranei ai suoi modi e miti, finiti qui per caso o per occulti richiami, ma sempre ospiti fuggitivi: personaggi eccezionali, com'è eccezionale chiunque stia per morire.»

[modifica] I personaggi principali descritti da Bufalino

  • Il protagonista: sensuale, ipocrita, retore.
  • Il magro: un mediocre mago d'Atlante, un passibile Mefistofele.
  • Marta: klimtiana, se dovessi visualizzarla.

[modifica] La scrittura

Tecniche scrittorie usuali:

  • ironie correttive
  • audodenigrazioni
  • distanze
  • l'ellissi
  • l'alternativa ininterrotta
  • la dilazione viziosa. Secondo una pratica consueta nei giochi d'amore, e con l'idea che la letteratura sia anche una variante dell'eros.
  • l'assolo cantabile: abbandono e fiducia nella parola.

Carrubba Biagio dà il seguente giudizio critico.

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«Io giudico Diceria dell'untore un bel romanzo, un piccolo capolavoro della letteratura italiana degli anni '80, anche se fu pensato negli anni '50 e scritto nel 1970-71 e rivisto nel decennio '70

I critici letterari sopra elencati giudicano e danno al romanzo una genesi diversa. Essi si possono dividere in tre schiere diverse:

  • la prima schiera (Salvatore Guglielmino, Guido Baldi, Genio Pampaloni, Francesco Puccio) dà al romanzo una genesi decadentistica;
  • la seconda schiera (Maurizio Dardano, Giulio Ferroni, Giuliano Manacorda, Attilio Cannella) dà al romanzo una genesi realistica;
  • la terza schiera (Marta Sambugar e altri) dà al romanzo una genesi fantastica, magica, lirica, che è poi l'indicazione e la posizione più vicina a quella scritta da Bufalino nell' Appendice del romanzo poco sopra sintetizzata.

Il primo gruppo insiste sulla discendenza decadentistica del romanzo per i temi della malattia e della morte, e considerano Bufalino un epigono o un riverbero della prosa d'arte rondiana come Geno Pampaloni.

Il secondo gruppo insiste sulla dimensione realistica del romanzo facendo riferimento al comportamento dei personaggi e alla malattia come conseguenza della guerra e non come tema simbolico del decadentismo. Marta Sambugar insiste invece sull'aspetto lirico, magico, fantastico del poemetto narrativo. Ma tutti questi critici sono concordi nell'attribuire la bellezza del romanzo alla scrittura di tipo barocco, al linguaggio alto, all'ornatus prezioso delle immagini.

Valga come esempio per tutti il giudizio di G. Baldi:

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«Bufalino adotta un stile alto, immaginoso e ricco di metafore, dall'aggettivazione preziosa e ridondante, con risultati di barocca sontuosità.»

Il già citato Biagio Carrubba dice che il romanzo è frutto del periodo postbellico e quindi rientra nelle linee del neorealismo; ha il fascino della scrittura barocca e ridondante ma non per questo il romanzo rientra nello stile degli anni anteguerra, né i temi sono originari del decadentismo, ma sono temi tipicamente postbellici e autobiografici per cui il romanzo ha un alto profilo letterario del neorealismo italiano, anche se per molti versi riesce a liberarsi dalla strettoia della realtà sociale intesa proprio negli anni del neorealismo. Non è il realismo di Vasco Pratolini, ma è un realismo post '68, perché il libro è stato scritto tra il 1970 e il 1971, quindi siamo in una italiana ancora sconvolta dalle proteste degli studenti e degli operai. Ma il libro riferisce la storia del '46 perché Bufalino racconta la sua storia personale e quindi ritorna indietro nel filo della memoria. Voglio collocare Diceria dell'untore al tempo della sua prima ideazione e quindi non anticiparlo né posticiparlo, perché se lo si anticipa lo si svaluta, se lo si posticipa lo si valorizza più di quello che il romanzo prospetta e vale. Questa trentennale gestazione del romanzo, dall'ideazione alla scrittura alla revisione, collocano il romanzo in un percorso culturale che inizia col neorealismo ma finisce abbondantemente fuori dal neorealismo e difatti contiene sia elementi neorealistici, cioè il tema e il contenuto, ma contiene anche elementi nuovi e uno stile barocco che è al di sopra del neorealismo. Ora, Biagio Carrubba il romanzo è la sintesi dei tre indirizzi dei tre gruppi di critici, perché ogni gruppo ha delineato e individuato un elemento e una dimensione che sono effettivamente presenti nel romanzo: la dimensione decadentistica sicuramente c'è; la dimensione realistica certamente c'è; la dimensione magica e favolistica c'è senza dubbio suffragata dalle parole e dalle spiegazioni dello stesso Bufalino.

La dimensione decadentistica è data dai temi della malattia come condizione speciale dell'uomo, capace di capire cose che non si comprendono da sani, e dai personaggi che vivono una condizione speciale di vita come afferma Bufalino. La dimensione realistica è data dal contesto storico del '46: «come l'occupazione delle terre postbellica o come la visita del re Umberto giovinotto in questua di voti, venuto fin lassù a stringerci con spaventoso coraggio la mano, qualche giorno prima del due giugno». E altri particolari come: «Robic, che scalava, ballando sui pedali, i tornanti del Tourmalet». La dimensione realistica è poi riscontrabile in tanti altri particolari, come: «L'Adele che dopo dimessa se ne tornò a vivere di borsa nera – latte in polvere Unrra e farina bianca – dalle parti dell'Olivella»; o come la festa del santo patrono nel paesetto vicino Palermo pieno di: «festoni di lampioncini e tralicci di fuochi d'artificio innalzati lungo la via principale, e, in uno spazio, momentaneamente immoti e disabitati, i veicoli di una giostra»; o come l'accenno al tipo di musica di moda di allora il «Bughivughi».
Un'altra dimensione realistica è data dal comportamento dei malati che non vedono nella malattia una condizione speciale e particolare di privilegio ma semplicemente una condizione sfortunata, conseguenza della guerra e una condizione naturale della vita, senza far ricorso a simbologie culturali del secolo precedente e senza rifugiarsi nella religione per avere speranza di guarire, come afferma il protagonista quando si trova solo in mezzo alla folla e contempla la gente appresso al simulacro del santo:

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«Ecco dunque la vita - pensai - stracciona e ronzante: una polpa di semi e di sangue. E io la mangio, la palpo, la odoro.»

La dimensione magica, lirica barocca, fantastica è a ogni pagina del libro: dal sogno sempre uguale del protagonista al sanatorio visto come un'arca, un luogo di rifugio e di consolazione e a tutte le descrizioni liriche dei luoghi e alla personalità sui generis dei personaggi. Ora, dunque, io credo che il romanzo sia la sintesi perfetta, originale di queste tre dimensioni (decadentistica - realistica – magica), sicché si può definire Diceria dell'untore un romanzo eclettico. Bufalino è riuscito, in sostanza, a fondere insieme i tre aspetti in una lexis originale, esuberante, esorbitante, in una scrittura alta e in uno stile brillante e personale che si allontana di molto dal linguaggio medio dei romanzi degli anni '70. Bufalino superava con un solo colpo la scrittura dei sperimentalisti degli anni '70 e raggiungeva una scrittura personale alta superiore alla media del tempo. Come un film, che diventa un capolavoro quando tutte le varie componenti di esso si fondono in un solo sincronismo complesso che dà unitarietà, complessità e profondità al tutto: dalla musica alla sceneggiatura, dalle immagini al personaggi, dalla interpretazioni degli attori all'attualità del tema, cosi anche il romanzo è riuscito a unificare e a sintetizzare le varie componenti in un assolo musicale e a creare uno stile omogeneo, ricco, vivido, ampolloso, arioso, così dà innalzare il romanzo a un capolavoro letterario: dal linguaggio al tono emotivo, dai personaggi ai luoghi.
Per un altro verso Diceria dell'untore fuoriesce dalle strettoie del contesto storico, per innalzarsi a un tempo indefinito e valido per sempre, perché come tutte le opere letterarie belle vivono ad di sopra del tempo contingente e lanciano il loro messaggio senza tempo a tutte le generazioni, come le poesie di Orazio che seppure lette oggi non hanno perso il loro fascino e il loro messaggio che è valido tuttora, ovviamente considerando il notevole cambiamento storico in cui viviamo. Io credo che il motivo di bellezza di Diceria dell'untore consiste ancora oggi nel fatto che Bufalino abbia saputo raccontarci la sofferenza dei deboli e dei malati, e la descrizione di quei malati è la descrizione di tutti i malati del mondo, che ancora oggi cercano un autore che sappia descriverli e ricordarli per sempre. Mutatis mutandis Bufalino ha fatto ciò che Primo Levi ha fatto con Se questo è un uomo, cioè ha descritto la sofferenza e il dolore dei suoi amici e compagni di prigionia nel lager di Auschwitz. E sia Levi che Bufalino, dando voce a questi sfortunati, li hanno resi in un certo senso immortali e hanno reso immortali se stessi, come i grandi scrittori di ogni tempo. Come scrisse Bufalino in uno scritto pubblicato dopo la sua morte:

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«Scrivo per passare il tempo, la scrittura per me è un giocattolo che mi distrae dal pensiero della morte, mi fa credere di durare.. l'ultima sigaretta del condannato .. il solo nostro alleato contro la morte.»

[modifica] Giuliano Manacorda

E per finire il giudizio di Giuliano Manacorda che esprime la stessa considerazione:

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«Grazie alla sua scrittura ironica e sapiente e alla capacità, che gli è particolarmente congeniale, di trasferire il dato biografico e lo stesso atto dello scrivere a meno estemporanee considerazioni: "raccontare per non morire" almeno finché questo inganno regge»
(Storia della letteratura contemporanea - Giuliano Manacorda)
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«Io credo che la maggior bellezza del romanzo stia comunque nel linguaggio vario e vivo, e nel suo stile barocco ricco di particolari e di rilievi come un dipinto ricco di colori e di raffigurazione vivida o come una statua ricca di rilievi e bassorilievi scolpiti con precisione netta e taglienti. Questa scrittura mi fa venire in mente anche una serie di immagini di danza come una danzatrice che fa dei passi e dei balletti continui e ininterrotti sempre nuovi e sempre attinenti al tema e alla musica che guida la danza. E allora come non finire con le stesse parole di Bufalino che descrive alla sua maniera ridondante il brano dove accenna alla musica che svolge e riprende il suo tema musicale: Non sarebbe riesploso il male a gola spiegata, con lo stesso processo di un tema di sinfonia che, appena enunciato all'inizio, e poi perso, alluso, ripreso, torna infine nel finale con tutti gli strumenti a cantare?»
(Storia della letteratura contemporanea- Giuliano Manacorda)

[modifica] Edizioni

  • Diceria dell'untore insieme al volumetto Istruzioni per l'uso, Palermo: Sellerio, 1981 (prima edizione), 1990.
  • Diceria dell'untore insieme a Istruzioni per l'uso e Museo d'ombre, Milano: CdE, 1982.
  • Diceria dell'untore, prefazione, cronologia e bibliografia di Francesca Caputo, con un'intervista di Leonardo Sciascia, Milano: Bompiani, 2001.
  • In Opere. 1981-1988, a cura di Maria Corti e Francesca Caputo, introduzione di Maria Corti, Milano: Bompiani, 2001.

[modifica] Note

  1. Maurizio Dardano I testi, le forme, la storia. Edizione Palumbo)
  2. Guido Baldi, Storia e testi della letteratura - Edizione Paravia
  3. Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana - Einaudi scuola
  4. Francesco Puccio, Testi e intertesti del novecento - Fratelli Conte editore
  5. Salvatore Guglielmino, Guida al novecento - Principato editore
  6. Attilio Cannella, La realtà e la parola - Principato editore
  7. Giuliano Manacorda, Storia della letteratura italiana contemporanea - Editore riuniti
  8. Marta Samburgar, LIEM
  9. Marta Samburgar, LIEM
  10. Giampaolo Pampaloni, da La letteratura italiana Edizione del Corriere della sera edizione 2005

[modifica] Collegamenti esterni

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