Banda della Uno bianca
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Banda della Uno bianca fu il nome attribuito dal giornalismo italiano ad una organizzazione criminale che, a partire dal 1987 e sino l'autunno del 1994, commise 103 crimini, provocando la morte di 24 persone ed il ferimento di 102. Il nome derivò dal tipo di auto generalmente utilizzata per le condotte criminose: una Fiat Uno bianca, dato che in quegli anni era molto diffusa e facile da rubare.
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[modifica] Composizione
Le sentenze, passate in giudicato, dei tribunali di Bologna, Rimini e Pesaro hanno riconosciuto in tutto sei persone come componenti della uno bianca.
- Roberto Savi: mente e fondatore della banda. Lavora come poliziotto presso la questura di Bologna, al momento dell'arresto riveste il grado di assistente capo e ricopre il servizio di operatore radio alla squadra volante. Da giovane milita come attivista nel Fronte della gioventù, suo padre Giuliano gli insegna l'uso delle armi. Nel 1976 entra Polizia e prende servizio a Bologna. Per molti anni ha svolto la funzione di operatore in volante, è stato trasferito alla sala operativa per aver rasato a zero un giovane ragazzo trovato in possesso di sostanza stupefacente. È stato il primo componente della banda in ordine di tempo ad essere arrestato. Durante il processo la moglie lo definisce come un uomo violento ed aggressivo, di carattere molto taciturno e schivo, non frequentava molte persone a parte i fratelli, passava molto del suo tempo a giocare con i videogiochi.
- Fabio Savi: fratello di Roberto. Anche lui come il fratello fa domanda per entrare in polizia, un difetto alla vista gli pregiudicherà questa carriera. Dal 1976 svolge molti lavori saltuari, ha un carattere spavaldo e non prova pudore a manifestare il suo pensiero razzista. Al momento dell'arresto fa il camionista e frequenta una ragazza rumena, Eva Mikula, le cui testimonianze si riveleranno decisive nella risoluzione delle indagini.
- Alberto Savi: fratello minore della famiglia Savi. Assieme a Roberto e a Fabio forma la struttura principale della banda. Fa il poliziotto come Roberto, al momento dell'arresto presta servizio presso il Commissariato di Rimini. Debole di carattere subisce la personalità del fratello maggiore Roberto.
- Pietro Gugliotta: unico della banda a non essere condannato all'ergastolo. Non ha partecipato alle azioni omicide, e per questo è stato condannato alla pena di 20 anni di reclusione. Anche lui poliziotto, svolge la funzione di operatore radio alla questura di Bologna assieme all'amico Roberto Savi.
- Marino Occhipinti: membro minore della banda, ha però partecipato comunque a numerose rapine ed omicidi e per questo è stato condannato alla pena dell'ergastolo. Anche lui poliziotto presso la squadra mobile di Bologna.
- Luca Vallicelli: poliziotto, è agente scelto presso la sezione polizia stradale di Cesena. Condannato all'ergastolo perché ha preso parte alla maggior parte delle azioni più gravi commesse dalla banda della Uno bianca.
[modifica] I crimini
La banda cominciò a compiere i suoi crimini dal 1987, dedicandosi nelle ore notturne alle rapine dei caselli autostradali lungo l'autostrada A14 per poi raggiungere il mare per festeggiare consumando la colazione. Il primo colpo messo a segno dalla banda fu la rapina al casello di Pesaro, consumata a bordo di una Fiat Regata. Dapprima il nucleo era composto da tre uomini.
Nel 1988 la banda decise di utilizzare come mezzo una Fiat Uno bianca, in quanto era un'autovettura che si forzava facilmente e per accenderla era sufficiente una tessera telefonica. Da allora le loro imprese criminali si identificano come quelle compiute dagli uomini della Uno bianca. Si trattava di personaggi piuttosto efficienti e privi di scrupoli, che non sembravano prediligere un particolare obiettivo, dedicandosi bensì a rapinare banche, caselli autostradali, supermercati, pompe di benzina, ecc. I loro attacchi furono molto cruenti e spesso pieni di morti e feriti. Tra essi qualche testimone oculare, come nel caso di Primo Zecchi, assassinato il 6 ottobre 1990 perché stava annotando il numero di targa della macchina dei criminali. Ciò che emerse immediatamente all'occhio degli inquirenti è la totale assenza di scrupoli di questi individui, che dimostravano di padroneggiare le armi, di agire con precisione e di saper uccidere senza tentennamenti. I colpi messi a segno, in genere nell'area compresa tra Pesaro, Rimini e Bologna, non frutteranno mai grosse cifre. I criminali si evidenziarono inoltre per vere e proprie azioni punitive inflitte ad un campo nomadi alla periferia di Bologna (23 dicembre 1990, due morti e due feriti) e ad alcuni immigrati (18 agosto 1991), e per delle azioni intimidatorie a danno di prostitute. Numerose furono le vittime dei delinquenti, tra cui una pattuglia dei Carabinieri, in normale servizio di perlustrazione del territorio (Castel Maggiore, 20 aprile 1988). Rimasero uccisi due militari: Cataldo Stasi e Umberto Erriu.
[modifica] La strage del Pilastro
Il 4 gennaio 1991 intorno alle 22, presso il quartiere Pilastro di Bologna, una pattuglia dell'Arma dei Carabinieri cadde sotto le pallottole del gruppo criminale. La banda si trovava in quel luogo per caso, essendo diretto a San Lazzaro, in cerca di un'auto da rubare. All'altezza delle Torri, in via Casini, l'auto della banda fu sorpassata dalla pattuglia dall'Arma. La manovra fu interpretata dai criminali come un tentativo di registrare i numeri di targa e pertanto decisero di liquidare i carabinieri. Dopo averli affiancati, Roberto Savi esplose alcuni proiettili verso i militari, sul lato del conducente (Otello Stefanini). Nonostante le ferite gravi subite, il militare cercò di fuggire, ma purtroppo andò a sbattere contro dei cassonetti della spazzatura. In breve tempo l'auto dei Carabinieri fu investita da una pioggia di proiettili. Gli altri due militari, Andrea Moneta e Mauro Mitilini, riuscirono a lasciare l'abitacolo ed a rispondere al fuoco, ferendo tra l'altro Fabio Savi. La potenza delle armi utilizzate dalla banda però non lasciava speranze ed entrambi i militari dell'Arma rimasero sull'asfalto. I tre carabinieri furono finiti con un colpo alla nuca. Il gruppo criminale si prese il disturbo di impossessarsi del foglio di servizio della pattuglia e si dileguò, aiutato dalla fitta nebbia della notte. La Uno bianca coinvolta nel massacro fu abbandonata poche centinaia di metri più in là ed incendiata; uno dei sedili era sporco del sangue di Fabio Savi rimasto lievemente ferito durante il conflitto a fuoco. Il fatto di sangue fu subito rivendicato dal gruppo terroristico "Falange armata". Tale rivendicazione fu però ritenuta inattendibile, in quanto giunta dopo il comunicato dei mass media. La strage rimase impunita per circa quattro anni. Gli inquirenti seguirono delle piste sbagliate, che li portarono quasi ad incriminare quattro soggetti estranei, di cui un camorrista. In seguito saranno gli stessi assassini a confessare il delitto durante il processo.
[modifica] Le indagini
Agli inizi del 1994 il magistrato di Rimini Daniele Paci costituì un pool di investigatori per risolvere il caso, dopo 7 anni di omicidi e crimini ancora senza un colpevole. Il pool non riuscì ad ottenere molto, solo la ricostruzione di un identikit di un bandito, registrato a volto scoperto durante una rapina in banca il 3 marzo 1994.
Verso la metà del 1994 il pool dei magistrati riminesi fu sciolto e la direzione delle indagini consegnata ad un pool di magistrati a Roma.
Furono però due poliziotti, l'ispettore Baglioni e il sovrintendente Costanza, a seguire la pista giusta. I due poliziotti, facenti parte della Questura di Rimini, avevano collaborato con l'appena sciolto pool di magistrati riminesi. Chiesero che il loro lavoro del pool non venisse perso ed avviarono delle indagini autonome volte a scoprire i componenti della banda della Uno bianca. Il procuratore di Rimini diede loro carta bianca, fu così che Baglioni e Costanza cominciarono a dedicarsi praticamente a tempo pieno alle loro indagini. Misero in atto appostamenti, ricerche, controlli agli istituti di credito rapinati e cercarono di capire le modalità operative della banda. Tutti gli elementi utili all' indagine venivano inseriti nella memoria di un computer che avevano comprato autofinanziandosi.
In Baglioni e Costanza cominciarono a sorgere dei sospetti che i componenti della banda potessero essere persone in seno alle forze dell'ordine, vista l'abilità dimostrata con le armi da fuoco e la apparente inafferrabilità del gruppo. In quel periodo eseguirono un minuzioso lavoro di ricostruzione dei delitti, confrontando date, orari, luoghi ed identikit. Baglioni e Costanza fecero poi una considerazione che si rivelerà fondamentale: i banditi conoscevano troppo bene le abitudini dei dipendenti della banche assaltate; ciò significava che svolgevano una puntigliosa opera di documentazione e di controllo prima di compiere la rapina. Inoltre i due poliziotti si chiedevano come facessero ad evitare tutti i posti di blocco ed a conoscere così bene tutte le vie di fuga lungo le strade secondarie. Decisero quindi di comportarsi come loro, passando le loro giornate ad appostarsi davanti ad istituti di credito, ubicati nelle zone che i criminali preferivano colpire, in attesa di notare qualche persona sospetta.
Il 3 novembre 1994 Fabio Savi commise un passo falso, eseguì un sopralluogo presso una banca del riminese, davanti alla quale si trovavano appostati Baglioni e Costanza. Savi giunse sul posto con la solita Uno bianca, che però esibiva una targa irriconoscibile per la sporcizia. Ciò destò la curiosità degli investigatori presenti sul posto, che confrontarono la fisionomia del conducente con quella rimasta impressa nei filmati ripresi nelle banche rapinate. Ne riscontrarono una vaga somiglianza e pertanto decisero di seguirlo. Fabio Savi li condusse infine presso la sua abitazione, a Torriana. Da questo momento le indagini subirono uno sviluppo sempre più nitido, fino ad acclarare le responsabilità dei criminali. Fu appurato che la loro inafferrabilità era dovuta all'uso improprio di palette e tesserini di servizio. L'ultimo colpo avvenne il 21 ottobre 1994, presso un istituto di credito di Bologna (due feriti). I componenti della banda furono infine arrestati e condannati all'ergastolo (6 marzo 1996), ad eccezione di Pietro Gugliotta, condannato a 15 anni.