Stalag 17 - L'inferno dei vivi
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Stalag 17 - L'inferno dei vivi | |
Titolo originale: | Stalag 17 |
Paese: | Stati Uniti |
Anno: | 1953 |
Durata: | 120' |
Colore: | B/N |
Audio: | sonoro |
Genere: | commedia, guerra |
Regia: | Billy Wilder |
Soggetto: | Donald Bevan, Edmund Trzcinski |
Produzione: | Billy Wilder |
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Fotografia: | Ernest Laszlo |
Montaggio: | George Tomasini |
Musiche: | Leonid Raab, Franz Waxman |
Si invita a seguire lo schema del Progetto Film |
L'inferno dei vivi è un film diretto dal regista Billy Wilder.
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Con Stalag 17 Wilder lascia definitivamente quelli che Godard ha chiamato con ironia “i grandi soggetti umani”, e decide di “prendere il comico sul serio”. Nell’ambito della crisi di identità che assale negli anni ‘50 ( gli anni del dopoguerra, della televisione e della ristrutturazione produttiva, in vista delle future corporations) le aree una volta ben delineate dei generi, Wilder decide ci dedicarsi ad un genere solo (quello comico , o della commedia) e di minarlo dell’interno, nella sua soddisfatta compiutezza, usandolo come esorcismo delle paure che assediamo il precario equilibrio del rimosso. Per Stalag 17, si arrivo a rimproverare a Wilder ( ebreo emigrato dalla Germania, di cui molti parenti erano morti nei campi di sterminio nazisti) di aver guardato all’universo dei lager, e dei tedeschi in genere, senza sufficiente riprovazione, con ammiccamenti e ambiguità; si arrivo a rimproverarli di aver ambientato in un campo di prigionia tedesco, luogo di dolore per eccellenza, una storia non priva di risvolti anche comici. In realtà Wiider nell’assumere l’universo “concentrazionario” come spazio privilegiato del film non fa che sviluppare un discorso iniziato nella casa di Giorni perduti (The Lost Weekend 1945), nella villa di Norma in Viale del tramonto (Sunset Boulevard 1950), nella caverna crollata di Leo in L'asso nella manica (Ace in the Hole 1951): si tratta dell’angoscia, velata dall’ironia, del Luogo coatto, quale tornerà in L'aquila solitaria (The Spirit of St. Louis 1957) o in Vita privata di Sherlock Holmes (The Private Life of Sherlock Holmes 1970). In questo universo claustrofobico, nel quale gli uomini si dibattono non meno drammaticamente perché sembrano divertirsi, la simpatia di Wilder vada tutta a Sefton (William Holden), traffichino cinico e senza sentimentalismi, contro la cui natura “altra” si appunta immancabilmente il rancore del resto della truppa. Sospettato di essere una spia, solo perché “diverso”, Sefton sperimenta su se stesso gli effetti di quella macchine d’esclusione che a scala più vasta, ma partendo dalla stesse radici, i nazisti stanno sostenendo contro altri “diversi”; e sarà proprio la macchine d’esclusione, questa volta giustiziera inesorabile, a segnare la fine della vera spia, scaraventandola di notte fuori dalle baracche, a farsi mitragliare dalle sentinelle: il luogo coatto diventa allora, significativamente luogo di salvezza, così come sarà il serbatoio d’acqua scomodo ma prezioso, per Sefton e il suo compagno, fuggiaschi (molti anni dopo, un altro fuggiasco e un altro rifugio precario: il condannato a morte e la scrivania a saracinesca, in Front Page). Il codice convenzionale, attraverso cui la spia comunica (senza dare nell'occhio) con i tedeschi, attiene alla posizione (più precisamente, all'altezza) d'una lampada nella camerata, sotto la quale i prigionieri giocavano a scacchi. In un'altra lampada (in Giorni perduti) era contenuta l'insidia della bottiglia nascosta: il pericolo, dunque, è in queste sorgenti di luce, che rivelano ciò che non andrebbe mostrato. La costanza del tema dell'occultamento traversa la filmografia wilderiana senza soluzioni di continuità, come la constatazione che il luogo oscuro è proprio là dove maggiormente si esercita la lettera della chiarezza. Un regista famoso, Otto Preminger, viennese come Wilder, si presta a fare l'attore, e la sua performance nel ruolo del Comandante von Scherbach è perfetta. Malignamente, si pòtrebbe trovare una corrispondenza non casuale tra il mestiere di regista e l'abilità nell'interpretare la parte d'un manipolatore di destini di uomini come il comandante d'un campo di prigionia (così come un ex-regista sarà quanto meno maggiordomo); ma Wilder, che sa, in quanto regista, di poter essere classificato allo stesso modo, è «indulgente »: ci fa ridere di Scherbach, inventa il gag delle telefonate con gli stivali, ci informa sulle sue speranze di promozione. Ambiguità? Debolezza? Non diremmo: piuttosto lo sguardo micidiale del comico, che guarda senza vergogna dal buco della serratura, e perciò stesso vanifica, la suggestione dell'orrore.