Gioacchino Murat
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Gioacchino Murat (Labastide-Fortunière, oggi Labastide-Murat (Linguadoca), 25 marzo 1767 - Pizzo Calabro, 13 ottobre 1815) fu Maresciallo dell'Impero napoleonico e Re di Napoli dal 1808 al 1815.
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[modifica] Da figlio di albergatore a re
Murat è un grande esempio della mobilità sociale che caratterizzò il periodo napoleonico (e anche delle conclusioni tragiche di molte folgoranti carriere).
Figlio di un albergatore, studiò in seminario, ma ne fu espulso a vent'anni per rissa. Fece per tre anni il mestiere paterno, poi si arruolò e fece parte della guardia costituzionale di Luigi XVI.
Alla caduta della monarchia si arruolò nell'esercito e divenne rapidamente ufficiale. Nel 1795 era a Parigi a sostenere Napoleone contro l'insurrezione realista. Lo seguì poi nella campagna d'Italia e in quella d'Egitto, dove fu nominato generale e fu determinante nella vittoria di Abukir contro i Turchi.
Partecipò attivamente al colpo di stato del 18 Brumaio 1799 e divenne comandante della guardia del Primo console. L'anno dopo sposò la sorella di Napoleone, Carolina Bonaparte.
Eletto nel 1800 deputato del suo dipartimento, il Lot, poi nominato comandante della prima divisione militare e governatore di Parigi, al comando di 60mila uomini, nel 1804 fu nominato Maresciallo dell'impero, e due anni dopo Granduca di Clèves e di Berg.
Grande soldato e grande comandante di cavalleria, fu con Napoleone in tutte le campagne, pur non rinunciando alle proprie opinioni, come quando si oppose all'esecuzione del duca di Enghien.
[modifica] Murat a Napoli
Nel 1808 Napoleone lo nominò re di Napoli, dopo che il trono sottratto ai Borboni si era reso vacante per la nomina di Giuseppe Bonaparte a re di Spagna.
A Napoli il nuovo re fu ben accolto dalla plebe, che ne apprezzava la bella presenza, il carattere sanguigno, il coraggio fisico, il gusto dello spettacolo e alcuni tentativi di porre riparo alla sua clamorosa miseria - e ovviamente detestato dal clero.
Durante il suo breve regno, Murat fondò, con decreto del 18 novembre 1808, il Corpo degli ingegneri di Ponti e Strade (all'origine della facoltà di Ingegneria a Napoli) ed avviò opere pubbliche di rilievo non solo a Napoli (il ponte della Sanità, via Posillipo, nuovi scavi ad Ercolano, il Campo di Marte ecc.), ma anche nel resto del Regno (bonifica delle paludi a Gioia Tauro, illuminazione pubblica a Reggio di Calabria, progetto del Borgo Nuovo di Bari).
La nobiltà apprezzò le cariche e la riorganizzazione dell'esercito sul modello francese, che offriva belle possibilità di carriera. I letterati apprezzarono la riapertura dell'Accademia Pontaniana e l'istituzione della nuova Accademia reale, e i tecnici l'attenzione data agli studi scientifici e industriali. I più scontenti erano i commercianti, ai quali il blocco imposto ai commerci di Napoli dagli inglesi rovinava gli affari (blocco contro il quale lo stesso Murat tollerava e favoriva il contrabbando, il che costituiva un'ulteriore ragione di favore popolare per lui).
La spinta innovatrice del decennio murattiano fu rapidamente inaridita dal ritorno dei Borboni.
[modifica] La caduta
Quanto a Murat, il nuovo ruolo non gli impedì di continuare ad essere un grande comandante, partecipando alla campagna di Russia e alla battaglia di Lipsia (1814). Dopo questa sconfitta cercò di salvare il trono facendo una pace separata con l'Austria, ma l'anno dopo, durante i Cento giorni, fu di nuovo a fianco dell'Imperatore, dando battaglia agli austriaci a Tolentino (e perdendola, il 2 maggio 1815). Il successivo Trattato di Casalanza del 20 maggio 1815, firmato presso Capua, sancirà definitivamente la sua caduta ed il ritorno del Borbone sul trono.
Dopo la seconda caduta di Napoleone, che aveva cercato di raggiungere a Parigi, fuggì in Corsica da dove tentò di passare a Napoli per sollevarne le popolazioni. Dirottato da una tempesta in Calabria, fu arrestato, condannato a morte secondo una legge da lui stesso voluta, e fucilato a Pizzo Calabro il 13 ottobre 1815.
Di fronte al plotone d'esecuzione si comportò con grande fermezza, rifiutando di farsi bendare, e pare che le sue ultime parole siano state: «Sauvez ma face -- visez à mon cœur -- feu!» (Salvate la faccia, mirate al cuore).
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