Io speriamo che me la cavo (libro)
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Io speriamo che me la cavo è un libro curato dal maestro elementare Marcello D'Orta che ha raccolto sessanta temi scritti da ragazzi di una scuola elementare della periferia napoletana che raccontano con innocenza, umorismo, dialettismi (e infiniti errori grammaticali, appositamente non corretti) storie di vita quotidiana di bambini che vedono con i loro occhi fenomeni come la camorra, il contrabbando, la prostituzione, gravidanze inaspettate ecc.
Questo libro, anomalo nel suo genere, ha venduto più di un milione di copie diventanto un bestseller. Affresco fin troppo reale di un meridione lontano dalla modernità e che si sente ai margini di uno sviluppo al tempo stesso così vicino e cosi lontano, ha come eroi, secondo il critico Riccardo Esposito, proprio quei tanti cittadini del sud che coraggiosamente cercano di vivere la loro vita in modo onesto e dignitoso, non cedendo al richiamo dei soldi facili o delle raccomandazioni della criminalità organizzata.
Il titolo del libro è dato dalla frase con cui un alunno, il più scalmanato di tutti, (che alla fine del libro ha una sorta di "conversione dell'innominato" verso lo studio e il senso del dovere) concluse il suo tema sulla parabola preferita di Gesù ossia l'Apocalisse, ribattezzata da quello studente con il termine "la fine del mondo".
Ben tratteggiati sono anche i personaggi minori, come il medico della mutua che è gentile e disponibile nelle sue visite domiciliari, ma comunque non capisce niente (tanto che il papà di uno dei bambini dice quando arriva:"Speriamo che stu strunzu capisca qcosa.." è sicuramente un'immagine che non rende giustizia alle migliaia di medici di base che svolgono il loro mestiere con competenza e scrupolo, ma che può spiegare un certo lifestyle del meridione, dove efficenza fa rima con servizi pagamento.
Lo stesso si può dire del problema dell'abbandono o della dispersione scolastica, il maestro si trova infatti una classe vuota, mentre i ragazzi sono intenti a fare lavori anche pericolosi, o disonesti come il contrabbando.
Oggi, il termine "io speriamo che me la cavo" viene usato per parlare di qualcosa di quantomeno arrangiato ma al tempo stesso con una certa buona dose di fatalismo, potenzialmente realizzabile nel verso migliore. Da questo libro venne tratto pure il film omonimo del 1992 interpretato da Paolo Villaggio per la regia di Lina Wertmüller.