Faber est suae quisque fortunae
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La locuzione latina Faber est suae quisque fortunae, tradotta letteralmente, significa "ciascuno è artefice della propria sorte".
La locuzione è presente nella prima delle due Epistulae ad Caesarem senem de re pubblica (De rep., 1, 1, 2) attribuite a Sallustio, ma di autenticità molto discussa (non è improbabile vederle citate come opere dello Pseudo Sallustio).
La frase, che nel tempo ha avuto molto successo e molte rielaborazioni, è attribuita, nell'opera di Sallustio al console Appio Claudio Cieco (Appius Claudius Caecus): in carminibus Appius ait, fabrum esse suae quemque fortunae (la forma diversa è soltanto dovuta alla costruzione della proposizione oggettiva in latino).
L'espressione è caratteristica della teoria dell'homo faber, secondo cui l'unico artefice del proprio destino è l'uomo stesso. Questa teoria venne sviluppata soprattutto durante l'Umanesimo e il Rinascimento, alla luce della riconsiderazione del rapporto tra virtù e fortuna intesa come destino e dell'uomo in genere: se infatti nel Medioevo l'uomo è succube del destino, nell'Umanesimo e nel Rinascimento esso è considerato intelligente, astuto ed energico e quindi capace di utilizzare al meglio ciò che la natura gli offre ed essere dunque artefice del proprio destino. Forte sostenitore di questa visione dell'uomo è il filosofo Giordano Bruno.