Carmen saeculare
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Il Carmen saeculare è un inno in diciannove strofe saffiche composto da Quinto Orazio Flacco.
Esso fu cantato il 3 giugno del 17 a.C. sul Palatino e sul Campidoglio da una coro di giovani fanciulle durante i Ludi saeculares, voluti dall'imperatore Augusto per celebrare la venuta dell'età dell'oro preannunciata dalla IV ecloga di Virgilio.
Lo stile del carme è elevato e solenne e possiede un carattere rituale e religioso. Infatti sono frequenti le invocazioni ad Apollo, a Diana ,al Sole, a Ilizia, alle Parche e alla Terra. Il componimento termina con l'encomio ad Augusto considerato discendente di Venere.
Nel carme Orazio manifesta la sua partecipazione all'ideologia augustea e la sua fede nella grandezza di Roma.
Il carme secolare è la celebrazione di Augusto e della potenza di Roma sul mondo ed esprime l'augurio che essa non possa mai morire. Il carme è un invito agli dei di dare lunga prosperità ai romani. Il carme risulta una preghiera perfetta e si può dire che rappresenta l'apoteosi della cultura pagana e la perfezione della poesia di Orazio.
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[modifica] Traduzione dal latino dell'opera Carmen Saeculare
Febo, e tu, signora delle selve, Diana, lucido onore del cielo, o voi, sempre da onorarsi ed onorati, concedete ciò che vi preghiamo nei giorni sacri, nei quali i carmi Sibillini prescrissero che vergini elette e fanciulli casti cantassero un inno agli Dei cui piacquero i sette colli. Almo sole, che cocchio fulgido dài fuori il giorno e lo nascondi, e nasci sempre diverso e sempre lo stesso, possa tu non vedere nulla più grande della città di Roma! O Ilizia, mite a schiudere secondo il rito i parti maturi, proteggi le madri, sia che ti piaccia essere invocata Lucina o Genitale. O dea, fa crescere la prole, e fa prosperare i decreti del senato sui matrimoni delle donne e sulla legge nuziale, feconda di prole novella, affinché ogni preciso volgersi di centodieci anni riconduca i canti e i giochi, tre volte nel chiaro giorno e altrettante nella notte luminosa affollati. E voi, o Parche, veritiere nel cantare ciò che fu detto una volta per sempre, e che l'irremovibile evento dovrà conservare, aggiungete felici destini a quelli che già si sono compiuti. La terra, fertile di biade e di bestiame, faccia dono a Cesare di una corona di spighe, nutrano i prodotti le Acque e le Aure salubri di Giove. Mite e placido, riposti i tuoi dardi, esaudisci i fanciulli supplici, o Apollo; esaudisci, o falcata regina delle stelle, o Luna, le fanciulle. Se Roma è opera vostra, e se le schiere troiane tennero il lido Etrusco, - quella parte cui voi ordinaste di mutare i Lari e la città con prospero navigare, e a cui senza danno, attraverso Troia in fiamme, Enea, superstite alla patria, con la sua pietà aprì libera la via, designato a dare loro più di quel che lasciavano: o Dei, concedete onesti costumi alla disciplinata gioventù, o Dei, date tranquillità alla vecchiezza serena, e, alla stirpe di Romolo, potenza e figliolanza ed ogni onore. E tutto ciò di cui vi prega, sacrificando bianchi giovenchi, il chiaro sangue di Anchise e di Venere, l'ottenga, più forte sul nemico in guerra, mite verso il nemico caduto. Già il Medo teme la mano possente per mare e per terra e le scuri albane, già gli Sciti chiedono ordini, e gli Indiani, fino a ieri superbi. Già la Fede e la Pace e l'onore e il Pudore prisco e la Virtù negletta osano tornare, e appare beata l'Abbondanza con pieno il corno. E Febo augure, adorno dell'arco fulgente, e caro alle nove Camene, egli che con arte medica dà sollievo alle membra lasse dei corpi, se mira benigno l'arce del Palatino, prolunga la potenza Romana e il Lazio felice ad un altro secolo e ad un'età sempre migliore; e quella che tiene l'Aventino e l'Algido, Diana, esaudisce le preci dei Quindecemviri, e ai voti dei fanciulli porge amiche le orecchie. Che così pensino Giove e tutti quanti gli dei, io, mi riporto a casa buona e certa speranza, io, coro istruito a cantare le lodi di Febo e di Diana.