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Abhidharma - Wikipedia

Abhidharma

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L’Abhidhamma in sanscrito o Abhidharma in pali è una delle tre sezioni del Tipiţaka (tre canestri) o, più semplicemente, del canone buddhista. Lo scorrere dei secoli ci ha consegnato solo due raccolte canoniche complete dell’Abhidhamma: quella in lingua pāli dei theravāda e quella dei sarvāstivada, noti anche come vaibhāŝika, quest’ultima sopravvissuta grazie alla traduzione cinese. Questa opera è sempre stata oggetto di una grande attenzione e di un rispetto che definire reverenziale non rappresenta assolutamente una forzatura. Si consideri, ad esempio, che ai novizi era vietato interrompere i monaci anziani quando erano impegnati a ragionare sui contenuti abhidhammici. La deferenza nei riguardi dell’Abhidhamma era profonda ed ampia all’interno della comunità buddhsita, tanto che lo stesso Kumarajiva (344-413), noto per la traduzione in cinese di circa settantadue testi buddisti, considerava l’Abhidhamma il punto d’inizio e la base per la diffusione del pensiero buddhista in Cina. Il motivo è facile da intuire: l’insegnamento del Buddha si fonda sulla comprensione della realtà che contrasta l’ignoranza (avijja) fonte del dukkha.

Indice

[modifica] L'importanza dell'Abhidhamma

Conoscere approfonditamente l’Abhidhamma significa conoscere la realtà non convenzionale del mondo fenomenico. E permette così di fare propri i concetti cardine che si presentano continuamente nei sūtra. Se il buddismo è “guardare le cose così come sono”, l’Abhidhamma enuclea i costituenti ultimi della realtà, li descrive e ne delucida le relazioni che tra essi intercorrono.

L’abhidhamma è considerato la filosofia o, volendo essere ancora più tecnici ed usare un linguaggio più recente, la psicologia del corpus dottrinario buddhista. Paragonare la dottrina buddhista alla filosofia o alla psicologia non è una cosa del tutto insensata, anche se la filosofia e la psicologia sono dei contenitori molto vasti di teorie anche contrastanti.

Il buddismo è può essere considerato più vicino all’approccio fenomenologico perché si sofferma sull’analisi dei fenomeni e non sulle categorie assolute ed è più vicino alla psicoterapia rispetto ad altri orientamenti psicologici perché lo studio della mente buddhista trova il suo scopo nel fornire un’immediata via d’uscita alla sofferenza mentale del soggetto.

[modifica] Descrizione

L’abhidhamma, nel portare avanti la disamina dei fenomeni, predilige il metodo induttivo, che osserva e analizza l’esperienza fenomenica per forgiare la conoscenza, al metodo deduttivo, che dall’astrattezza di un’idea cerca corrispondenza nell’esperienza e nei fatti. Per quanto concerne il metodo analitico e il metodo relazionale, possiamo affermare che certamente non disdegna né l’uno né l’altro. Il metodo analitico, che prevede la divisione di un fenomeno dal suo contesto a fini conoscitivi, è di grande aiuto anche per allentare l’attaccamento, o la brama, verso processi o cose, specialmente quelli nocivi. Il fine ultimo dell’applicazione del metodo analitico è di dimostrare che alla fine tutto si riduce a porzioni di un processo di esperienza che si presenta nei due volti della stessa medaglia: stati di coscienza (il mondo interno) e dhamma, atomi o quanti (il mondo esterno). L’analisi abhidhammica, giunta al completamento della sua indagine, rivela il processo esperienziale come l’unica e ultima verità. Tuttavia il pensiero buddhista ha sempre caldeggiato l’idea di non perdere il quadro dell’insieme e di non attaccarsi neanche ai dati emersi dall’estrema indagine analitica dei fenomeni dell’esperienza. Possiamo affermare che la cifra del buddhismo è la comprensione di una realtà relazionale. L’Abhidhamma, dunque, all’assolutismo del metodo analitico affianca, relativizzando, il metodo relazionale che dimostra come le parti appena rivelate dalla scomposizione del metodo analitico non hanno esistenza intrinseca, ma esistono piuttosto perché appartengono ad un insieme, o meglio, perché il loro significato si espleta nel rapporto che tra esse intercorre. Tutto ciò è visibile e riscontrabile in special modo nel Dhammasangaņī, il primo libro del corpus abhidhammico, che classifica i fattori della realtà fenomenica e il Paţţhāna in cui sono analizzate le relazioni causali dei diversi fattori. Analisi e sintesi sono due approcci che indagano la stessa cosa, l’unica cosa oggettivamente esistente: l’esperienza.

[modifica] Origini dell'Abhidhamma

La tradizione theravāda assegna la compilazione dell’Abhidhamma al Buddha stesso, con la sola eccezione di uno dei sette libri, il Kathāvatthu, attribuito a Moggaliputtatissa, attribuzione forzata poiché narra di dispute dottrinali verificatesi in un periodo posteriore alla morte di Buddha.

L’Abhidhamma sarvāsrtivada riconosce la partecipazione, oltre che quella del Buddha, di vari anziani appartenenti alla scuola stessa – anche se questi per la tradizione furono dei compilatori che incentrarono le loro ricerche sul canone a loro preesistente. Un’altra scuola, quella dei sautrāntrika (nome derivante dalla parola sūtra: coloro che seguono i sūtra), pur riconoscendo il valore dell’Abhidhamma e accettandolo in parte, non riconobbe la paternità dei principi presenti nell’opera al Buddha medesimo. L’Abhidhamma con tutta probabilità è postumo rispetto alle altre due sezioni del Tipiţaka. Quasi certamente, il processo della sua sistematizzazione partì dall’esigenza di elencare, per un eventuale studio mnemonico, le parti essenziali degli insegnamenti racchiusi nei sūtra. Dobbiamo, dunque, immaginarcelo come una specie di elenco, o breviario, nel quale era racchiusa l’essenza dell’insegnamento del buddha.

Col tempo questo elenco mnemonico, tramandato in un primo momento oralmente – ed anche per questo era così sentita la necessità di apprendere a memoria queste conoscenze - assume sempre più l’aspetto di uno studio approfondito, direi quasi scientifico, sicuramente sistematico, di quel che avviene nella realtà delle cose in una precipua circostanza fisica e anche, e soprattutto, psicologica. Questo fa sì che l’Abhidhamma con la sua osservazione dei fattori fisici e mentali, diventi uno strumento importantissimo per la meditazione di visione profonda. Si viene a palesare, dunque, secondo la filosofia buddhista, una differenziazione tra la realtà per come ci appare e la vera realtà che soccombe alla nostra erronea e fuorviante attività sensoriale. Il linguaggio e i contenuti dell’Abhidhamma sono assai complessi e difficili da comprendere, non solo per la minuziosa e capillare analisi riduttiva per mezzo della quale processi e forme sono, appunto, ridotti ai fattori costituenti, ma anche per il messaggio, più che esplicito, che rivolge al lettore.

[modifica] Contenuti

Questa raccolta mina totalmente il concetto che noi abbiamo di realtà fenomenica, intaccando frontalmente anche l’idea che abbiamo di noi stessi. Quel che ci sembra di essere, di fatto non è: quel che appare ai nostri sensi come un’entità fissa, in realtà è un processo; questa formula è applicabile anche al concetto che abbiamo del nostro Sé. Quel che non leggiamo nell’Abhidhamma è la spiegazione, o meglio, la scomposizione di quel che avviene nelle narrazioni dei discorsi del Buddha, di ciò che rappresenta quel che sembra, ma non è.

La tradizione vuole il Buddha come un abile scrutatore della psiche umana, capace di distinguere le possibilità di comprensione del suo interlocutore. Da qui il Buddha Šakyamuni avrebbe divulgato il suo insegnamento in un linguaggio più accessibile e convenzionale, quello dei sūtra, e uno non convenzionale e più attinente alla realtà incarnata nel corpus abhidhammico - per quanto le parole, il linguaggio, possano tradurre integralmente concetti in forme di suono e di scrittura.

Questo portò la speculazione filosofica abhidhammica a distinguere tra realtà, o verità, convenzionale (saṃvṛtisatya, sammutisacca) e realtà ultima, cioè così come le cose sono (paramārthasatya, paramatthasacca). Per spiegare in termini più comprensibili a quella che dovrebbe essere una mente più razionale e meno mistica come quella di un occidentale, portiamo il paragone del sistema Windows e il linguaggio MS-DOS. Le icone e lo sfondo che vediamo sul nostro desktop, e la possibilità di aprire, creare e chiudere cartelle, immagini e così via, sono il frutto di un complicatissimo sistema, o linguaggio, che noi non vediamo direttamente (quello che ci appare nello schermo è il risultato di questo sistema sottostante, cioè l’MS-DOS) e che tuttavia ci permette di usufruire della semplicità del sistema Windows.

Quel che i filosofi buddisti hanno scoperto, e che tuttavia rimane così imperscrutabile, è che ciò che ci sembra di percepire è solo una parte della realtà: la realtà che riusciamo a percepire, da qui, considerata la scarsa porzione che ne riusciamo a scorgere, diciamo che la realtà da noi percepita non è la realtà, perché è un’informazione eccessivamente parziale e imparziale (nel senso che è una realtà oltremodo soggettivizzata dall’esperienza, dall’emotività e dalle abilità cognitive personali). La Verità sembrerebbe essere nascosta, dunque, dalle nostre possibilità percettive, che i buddisti definiscono realtà convenzionale. Allora le cose del mondo, e nel mondo, non sono entità fisse, ma processi mutevoli e che esistono esclusivamente in una relazione di causa ed effetto.

Anche l’Io, o, in forma più estesa, quel che intendiamo con il termine persona, è un processo cangiante che influenza e a sua volta è influenzato. Il nostro corpo è composto da diversi elementi costitutivi e la nostra mente, il nostro software che muove e comanda il nostro hardware corpo, è la somma di complessi processi mentali. Tutti i fenomeni dell’universo dipendono, per esistere, dalla loro reciproca interazione: sono, cioè, interdipendenti. Così la sedia che è composta da più parti, dipende dal legno, da un albero, dalla terra dove fu piantato l’albero, dalla pioggia e dal sole, ma anche da un uomo che ha progettato e costruito questa sedia. Così anche quello che siamo è costituito da parti interdipendenti tra loro e interdipendenti con cause esterne (cibo, ossigeno e così via).

In un periodo che va dall’insegnamento diretto del Buddha alla sua morte, l’individuo era scomposto in cinque aggregati: skanda/khanda. In seguito, anche attraverso quel percorso di ricerca che portò alla compilazione dell’Abhidhamma, i cinque aggregati psicofisici furono ulteriormente suddivisi in altre sottounità, degli elementi di base: i dhamma. L’Abhidhamma dei theravāda riconosce ottantadue classi di dhamma, solo uno dei quali è incondizionato (asamskṛta/asaṃkhata): il nibbāna. Tutti gli altri sono condizionati (samskṛta/ saṃkhata), il che vuol dire che questi ottantuno dhamma esistono grazie a determinate condizioni e quindi, per essere, sono condizionati da altri fattori. Solo il nibbāna non è condizionato e non è scomponibile in altri fattori e non dipende da altri fattori. I dhamma hanno, ognuno singolarmente, peculiarità distinguibili.

[modifica] I dhamma

I dhamma condizionati si dividono in tre categorie: la coscienza (citta = viññana/ vijñana), formata da un solo dhamma; le associazioni mentali (cetasika/ caitasika) composte da ben cinquantadue dhamma – venticinque salutari, quattordici non salutari e tredici moralmente neutre; la materia o forma fisica (rǖpa) che conta ventotto dhamma. Certamente l’Abhidhamma è uno strumento utilissimo al praticante buddhista, tuttavia quest’opera tra i suoi scopi ha quello di elencare e studiare gli aspetti dell’essere e l’aspetto principale dell’essere è il sorgere, il permanere per un tempo determinato, e lo sparire… poi che questa sistematizzazione aiuti e sostenga il meditante è fuori di dubbio, tuttavia non possiamo soprassedere sul valore ontologico dell’opera.

La critica recente afferma che l’Abhidhamma therāvadin presenta uno studio dell’essere dei fenomeni e dei processi, ma non delle sostanze. La questione di indagare ulteriormente i dhamma come entità e sostanza rimane abbastanza aperta, e questo è uno dei campi di scontro, o confronto, con i sostenitori dell’abhidhamma sarvāstivada. L’Abhidhamma sarvāstivadin , come è presumibile attendersi, ha molte differenze con quello in pali. Qui abbiamo a che fare con settantacinque dhamma e l’incondizionato dhamma del nibbāna è in compagnia di altri due dhamma incondizionati. Inoltre non tutti i settantacinque trovano corrispondenza con l’elenco dei dhamma dei therāvada, il che significa che l’Abhidhamma dei sarvāstivada presenta differenze, anche rilevanti, sul piano ontologico.

I sarvāstivadin vedevano negli elementi ultimi della realtà, i dhamma, entità forniti di esistenza propria (svabhāva) e non dipendono, non da altre cause, ma hanno a che fare con quello che Paul Williams chiama una reificazione concettuale.

Spieghiamo di cosa stiamo parlando, onde evitare di dare informazioni ambigue sul pensiero dei sarvāstivada (sarva asti = ogni cosa è). Prendiamo l’esempio di una città, il termine “città” è usato per descrivere non una singola unità fenomenica, ma un insieme di singole unità (costruzioni, strade, abitazioni, cittadini, ecc…) che, per esemplificazione concettuale, raggruppiamo in un’unica parola portatrice di un valore semantico che esprime l’insieme. Dal punto di vista oggettivo, dunque, un insieme può anche essere considerato una “singola cosa” – specialmente quando l’insieme si caratterizza di aspetti che trascendono le parti, assumendo così un nuovo valore diverso o aggiunto a quello delle parti componenti. – nondimeno è inconcepibile un approccio che non tenga anche conto delle singole unità che realizzano l’insieme. Quindi, come suggerisce Paul Williams, i dhamma per questa scuola buddhista non sono causalmente dipendenti, nel senso che non traggono origine da una reificazione concettuale come quella dell’esempio fatto poco fa per il termina città.


Ovviamente anche per i sarvāstivada i dhamma sono in relazione di causa ed effetto tra di loro: il dhamma salutare risente del dhamma non salutare, la brama è contrastata dalla non brama e viceversa. Questo implica che i dhamma, o i fenomeni, in sé non sono, ma vengono ad essere in relazione. Si dice che né esistono né non esistono, quindi non sono buoni come non sono cattivi. Ciò non significa che il mondo e la materia non esistono, descrive semplicemente il loro carattere relativo. Ora sappiamo che per l’Abhidhamma e per i pensatori buddisti la manifestazione reale delle cose è originata da dhamma condizionati reciprocamente – nei testi troviamo il termine saṃsarga, termine molto appropriato per rendere l’idea dello stato delle cose dei dhamma. Saṃsarga è un sostantivo composto, ma lo troviamo nei dizionari di lingua sanscrita anche come un unico lemma e in questo caso lo traduciamo con: mescolanza, associazione. Nel caso dei dhamma, tradurlo in modo che i due elementi originari della parola siano palesi, ci darà come risultato il composto: “co-emissione”. La realtà fenomenica, quindi, è il risultato di questa co-emissione di dhamma e questi dhamma hanno le seguenti proprietà: nascono, continuano il processo di esistenza e cessano al compimento di questo processo, e in ognuna delle suddette fasi influenzano e sono influenzati dagli altri dhamma. Per la filosofia buddhista tutto nasce e muore, ma il nascere e morire non sono altro che fasi di un processo relazionato ad altri infiniti processi; tutto è condizionato e quel che è condizionato è sofferenza. Chiudiamo il paragrafo con una scheda che riassume i sette libri che compongono l’Abhidhamma in lingua pali. Il Dhammasangāṇi è il primo libro, gli studiosi buddhisti lo considerano la sorgente dell’intero sistema dell’Abhidhamma. Possiamo tradurre il titolo come “Enumerazione dei Fenomeni”.


Come abbiamo precedentemente spiegato, questa prima sezione si presenta come un catalogo esauriente dei costituenti ultimi dell'esistenza, non a caso si apre con il mātikā, una scheda con il programma delle categorie che serve da struttura per l’Abhidhamma, e si divide in quattro capitoli. Il primo, “stati della coscienza” prende circa la metà del libro e presenta una prima analisi che divide i suddetti stati di coscienze nella presente triade: sano, malsano e indeterminato. L’analisi prosegue e si fa sempre più approfondita, ed enumera centoventuno tipi di coscienze classificate in base alla loro qualità etica. Ogni tipo di coscienza a sua volta è suddiviso nei relativi fattori mentali coesistenti, che sono definiti individualmente in maniera esauriente. Il secondo capitolo, “sulla materia”, porta avanti l’investigazione di ciò che è moralmente indeterminato, enumerando e ordinando i differenti tipi di fenomeni materiali. Il terzo capitolo, chiamato “sommario”, offre spiegazioni concise di tutti i termini presenti nell’Abhidhamma e nel Suttanta, la sezione dei sūtra. Il primo libro termina con un riepilogo,“sinossi”, che spiega succintamente solamente l’Abhidhamma. Il Vibhanga ,“il libro di analisi”, è composto di diciotto capitoli, ogni dei quali si presenta come una esposizione indipendente. Il Vibhanga si occupa, nelle diverse sezioni di: aggregati, sensi di base, elementi, verità, facoltà, originazione dipendente, fondamenti della presenza mentale, sforzi supremi, mezzi per la realizzazione, fattori dell’illuminazione, il nobile ottuplice sentiero, i jhana, regole d'addestramento, generi di conoscenza, un registro numerico dei contaminazioni o inquinanti, il dhammahadaya - “il cuore della dottrina” – che è una topografia psico-cosmica dell'universo buddhista. Il Dhatūkathā, “il discorso sugli elementi”, è scritto in una forma che potremmo definire di catechesi. Esamina tutti i fenomeni che hanno a che fare con gli aggregati, i sensi di base e gli elementi di base. Il Puggalapaññatti, “concetti sugli individui” (in realtà il termine puggala si traduce con: persona), è considerato generalmente come il più in antico dei libri dell’Abhidhamma. Tratta il tema del puggala, la persona. Il libro si apre con un indice e segue il metodo dell’Anguttara Nikāya, quindi studia l'essere umano sotto un termine, poi sotto due e così fino a dieci. Varie parti si ritrovano, quasi per intero, nelle sezioni corrispondenti dell’Anguttara Nikāya. Inoltre inizia con elenco completo dei tipi di concetti e questo suggerisce che probabilmente è stato redatto per supplire alle realtà concettuali escluse dagli altri libri dell’Abhidhamma. Il Kathāvatthu “i punti della controversia”, è un trattato, dal tono ovviamente polemico, attribuito a Moggaliputta Tissa.

Compilato durante il regno dell'imperatore Aśoka, 218 anni dopo il Parinibbana del Buddha, esprime la volontà di contestare le opinioni eterodosse delle scuole buddhiste non appartenenti ai theravādin che riconoscevano solo gli insegnamenti presenti nei sūtra. I theravāda difesero la legittimità di questo libro, suggerendo – con una tesi ardita - che in realtà Moggaliputta Tissa compilò solamente seguendo le intenzioni e le volontà del Buddha stesso. Il Yamaka “il libro degli accoppiamenti” è stato compilato con il fine di dissolvere probabili ambiguità, definendo con la massima precisione i termini tecnici compresi nell’Abhidhamma. È così chiamato perché nelle sue pagine è utilizzato il gruppo duale di una domanda con la relativa formulazione opposta. Il Paṭṭhāna “il libro dei rapporti condizionali” è considerato il lavoro più importante del Abhidhamma, tant’è che la tradizione gli ha conferito l’epiteto di “grande trattato” (mahapakarana). Un’opera imponente per dimensione e accuratezza. Lo scopo del Paṭṭhāna è quello di applicare lo schema delle ventiquattro relazioni condizionate a tutti i fenomeni presenti nella tabella dell’Abhidhamma. Quindi è strettamente connesso con i principali fenomeni dell’esistenza sia fisici che mentali: l’Io, la persona, il mondo. La parte principale del lavoro ha quattro grandi divisioni: origini secondo il metodo positivo, secondo il metodo negativo, secondo il metodo positivo-negativo e secondo il metodo negativo-positivo. Ciascuno di questi a sua volta ha sei suddivisioni: origini delle triadi, degli elementi bivalenti, degli elementi bivalenti e delle triadi uniti, delle triadi e degli elementi bivalenti uniti, delle triadi e delle triadi unite e degli elementi bivalenti e degli elementi bivalenti uniti. Anche se presenta una puntualissima e dettaglia delucidazione del paṭiccasamuppāda, non ricalca la classica suddivisione nei dodici anelli, bensì sui ventiquattro paccaya o modi dell’essere condizionabili.

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