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Terremoto del Belice - Wikipedia

Terremoto del Belice

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 un violento terremoto colpì una vasta area della Sicilia occidentale compresa tra le provincie di Palermo, Agrigento e Trapani.

Lo stesso 15 gennaio, dato che la zona interessata non era considerata critica dal punto di vista sismico, il terremoto venne trascurato nella sua entità, tant'è che molti quotidiani dello stesso giorno, riportarono la notizia di pochi feriti e qualche casa lesionata.

La realtà si fece terribile allorquando i primi soccorsi arrivarono in prossimità del triangolo dell'epicentro, idealmente formatosi tra Gibellina, Salaparuta e Poggioreale: le strade erano praticamente state risucchiate dalla terra e molti collegamenti con i paesi colpiti furono praticamente impossibili sino alla notte tra il 15 e 16 gennaio, ovvero ventiquattro ore dopo il violento sisma. Tutto ciò creò ancora più confusione in quelli che erano soccorsi già poco coordinati e frammentari.

Nei giorni seguenti arrivarono nella zona il presidente della repubblica Giuseppe Saragat e il ministro dell'interno Taviani. Furono impegnati nei soccorsi più di mille vigili del fuoco, la Croce Rossa, l'esercito. Un pilota di uno degli aerei impegnati nella ricognizione della zona dichiarò di avere visto "uno spettacolo da bomba atomica[...]Ho volato su un inferno".

Restano nella storia della cronaca giornalistica gli articoli di Giovanni Russo, inviato del Corriere della Sera, che compì un vero e proprio viaggio attraverso tutti i centri colpiti, intervistando i superstiti e descrivendo senza alcuna enfasi il disastro che si era compiuto.

Russo poté constatare che Gibellina, Salaparuta e Montevago erano stati rasi al suolo e che i superstiti, avendo perso le poche cose che avevano, vivevano in uno stato di totale indigenza. Tra le macerie delle povere case crollate furono faticosamente trovati centinaia di morti. I feriti furono migliaia e, con enorme difficoltà, furono trasportati negli ospedali di Palermo, Agrigento e Sciacca. Sempre dal Corriere della Sera - del 20 gennaio 1968 - possiamo capire lo stato in cui si trovarono a lavorare i medici impegnati nel soccorso ai feriti.

L'inviato speciale Mario Bernardini poté arrivare a Sciacca e intervistare, per il Corriere della Sera, il prof. Giuseppe Ferrara, giovane primario chirurgo dell'ospedale, il quale - così come tutti i chirurghi di tutti gli altri ospedali in cui erano stati smistati i feriti - si trovò a fronteggiare una situazione d'emergenza che lo tenne in sala operatoria senza soluzione di continuità per più giorni, durante i quali, quasi senza sosta, continuarono le scosse di terremoto. Ferrara raccontava a Bernardini che "Stavamo operando, il pavimento ci ballava sotto i piedi. Sentivo accanto a me la suora assistente che recitava le sue preghiere mentre mi porgeva i ferri, attenta e precisa come sempre[...] Eravamo in sala chirurgica dalle 8 del mattino. Non c'era un momento di sosta fra un intervento e l'altro[...] Uno solo di tutti quelli che abbiamo operato è morto. Aveva perso le gambe ed ambedue le arterie erano recise[...] Gli altri, senza una gamba, senza un braccio, li abbiamo tutti salvati. L'intervento più difficile fu una trapanazione del cranio: era una bambina di quattro anni che i vigili avevano trovato a Gibellina, fra le braccia della madre morta".

Egisto Corradi, altro inviato del Corriere della Sera, parlando della zona di Santa Ninfa, descrisse minuziosamente lo stato di assoluta precarietà in cui si svolsero i soccorsi nei primi giorni successivi al sisma: " La pioggia ha ridotto la piana ad un acquitrino nel quale si affonda fino alle caviglie...Macchine ed autocarri si sono impantanati sia tra le tende che lungo la strada, continuamente bloccata da ingorghi". Nell'articolo veniva messa in evidenza la mancanza di coordinamento anche in merito alla distribuzione degli aiuti alimentari che arrivavano da tutta Italia.

Di certo, il terremoto del 1968 mise drammaticamente a nudo lo stato di arretratezza in cui vivevano quelle zone della Sicila occidentale, in primo luogo nella stessa fatiscenza costruttiva delle abitazioni in tufo, crollate senza scampo sotto i colpi sussultori del sisma. Le popolazioni di quei paesi erano composte in gran parte da vecchi, donne e bambini, visto che i giovani e gli uomini erano già da tempo emigrati per questioni di lavoro. Questo dato rappresentava il disagio sociale che lo Stato conosceva e trascurava, così come trascurò le conseguenze del sisma, che hanno rappresentato, in fatto di calamità naturali, uno dei primi, e tristemente celebri, 'casi italiani' nella storia del dopoguerra: l'impreparazione logistica, l'iniziale abbandono da parte dello Stato, i ritardi nella ricostruzione, le popolazioni costrette all'emigrazione, lo squallore delle baracche per coloro che restavano.

Anche i successivi stanziamenti economici per la ricostruzione diedero luogo ad opere faraoniche spesso inutili, quali la città di Gibellina, issata a vessillo della ricostruzione in quanto progettata da famosi architetti e artisti ma assolutamente mal pensata in merito al fattore più importante che sta alla base della ripresa economica, ovvero l'occupazione lavorativa per gli abitanti. Si pensi che la ferrovia Salaparuta-Castelvetrano che collegava la maggior parte dei centri dell'area terremotata con la zona costiera, distrutta dal sisma non venne mai più ricostruita, nonostante avesse un buon traffico viaggiatori. Venne invece finanziata e costruita l'autostrada Palermo-Mazara del Vallo al posto della viabilità ordinaria dissestata, per fare fronte alla ricostruzione della rete di collegamento tra i centri abitati, l'opera piu' essenziale ed urgente. Gli anni che seguirono il terremoto furono costellati da appalti, buone intenzioni, proclami, stanziamenti. Fatto sta che ancora oggi non tutto è stato ricostruito; e tornano così attualissime le lotte che Danilo Dolci intraprese a favore della popolazione e contro il malaffare politico-mafioso.

Leggendarie sono le frasi scritte da Dolci sui muri dei ruderi, quali ad esempio "La burocrazia uccide più del terremoto", "Qui la gente è stata uccisa nelle fragili case e da chi le ha impedito di riappropriarsi della vita col lavoro", "Governanti burocrati: si è assassini anche facendo marcire i progetti".

Oggi, dopo decenni di interminabili lavori, gli antichi paesi della valle sono stati in gran parte ricostruiti in luoghi distanti da quelli originari interessati dal terremoto: abitazioni, infrastrutture urbanistiche e stradali hanno sì riportato condizioni di vivibilità ma hanno anche profondamente modificato il volto di quella parte della Sicilia.

Tra i 14 centri colpiti dal sisma vi furono paesi che rimasero completamente distrutti: Gibellina, Poggioreale, Salaparuta, Montevago. Le vittime furono 370, un migliaio i feriti e circa 70 000 i senzatetto.

Si ricordano gli altri paesi e cittadine che hanno subito danni ingenti: Menfi, Partanna, Camporeale, Chiusa Sclafani, Contessa Entellina, Sciacca, Santa Ninfa, Salemi, Vita, Calatafimi, Santa Margherita di Belice.

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