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Omicidio Calabresi - Wikipedia

Omicidio Calabresi

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

L'omicidio Calabresi è un noto fatto di cronaca politica degli anni settanta riguardante Luigi Calabresi, commissario di polizia e vice-responsabile della squadra politica della questura di Milano, che fu assassinato davanti alla sua abitazione a colpi di arma da fuoco. La lunga vicenda giudiziaria che ne è seguita ha portato al riconoscimento della colpevolezza di Ovidio Bompressi, Leonardo Marino, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani, ma è stata alquanto controversa e ha diviso l'opinione pubblica italiana.

Indice

[modifica] Il contesto

Il periodo storico è quello della contestazione, della strategia della tensione e degli anni di piombo.

  • Il 12 dicembre 1969 la strage di piazza Fontana: un attentato terroristico nel quale una bomba esplose nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura di Piazza Fontana nel centro di Milano, provocando la morte di sedici persone ed il ferimento di altre ottantotto.
  • Nel corso delle indagini seguite all'attentato, un giovane esponente dei movimenti anarchici milanesi, il ferroviere Giuseppe Pinelli, fu convocato in questura, per accertamenti. Trattenuto per tre giorni consecutivi di interrogatorio, oltre il termine legale, il 15 dicembre 1969, precipitò dalla finestra dell'ufficio del commissario Luigi Calabresi, incaricato delle indagini sul caso, e morì sul colpo. Le circostanze della morte di Pinelli sono tutt'oggi oggetto di dibattito, se siano state causate da volontà di suicidio, fatalità, malore, o, come sostengono alcuni, specialmente nelle aree di estrema sinistra, Pinelli sia stato coscientemente defenestrato per usare il suo "suicidio" come prova della sua colpevolezza.
  • L'inchiesta della magistratura sulla morte di Pinelli, condotta da Gerardo d'Ambrosio, definì il fatto come morte accidentale (Pinelli, secondo l'inchiesta, sarebbe caduto dalla finestra in seguito ad un malore), e accertò che il commissario Calabresi non si trovava nella stanza al momento del fatto.
  • Ne seguirono tuttavia molte polemiche e in particolare il movimento extraparlamentare di sinistra Lotta Continua condusse una violenta campagna di stampa contro il commissario Calabresi. Ne seguirono querele che portarono alla condanna di alcuni esponenti di Lotta Continua.

[modifica] L'omicidio

Il 17 maggio 1972, alle ore 9:15, Luigi Calabresi fu assassinato davanti alla sua abitazione in Largo Cherubini, a Milano, da un commando di due uomini, che lo uccisero con un colpo alla testa e un colpo alla schiena, mentre stava raggiungendo la sua auto, una Fiat 500 rossa. Secondo alcune testimonianze il killer era un uomo giovane alto a volto scoperto, che dopo aver sparato riattraversò la strada e salì su una Fiat 125 blu che si dileguò nel traffico, ed uno dei testimoni prese la targa.

[modifica] Le indagini

Le indagini seguite all'omicidio non produssero riscontri immediati. Intervennero forti pressioni e depistaggi e il caso divenne uno dei misteri d'Italia, svelato solo anni dopo da uno degli autori, pentìtosi.

Le Brigate Rosse condussero anch'esse una indagine, trovata nel loro covo di Robbiano di Mediglia.

[modifica] Il pentito

Sedici anni dopo i fatti, nel 1988, Leonardo Marino, nel 1972 militante di Lotta Continua, confessò ai giudici di essere stato uno dei due membri del commando che aveva ucciso il commissario. Marino disse di aver guidato l'auto usata per l'omicidio, e che a sparare al commissario sarebbe stato Ovidio Bompressi; aggiunse che i due avrebbero ricevuto l'ordine di compiere l'omicidio da Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani, allora leader del movimento. Marino descrisse i particolari dell'attentato, il delitto fu accuratamente preparato, le armi furono prelevate da un deposito il giorno 14 maggio e la macchina fu rubata nella notte del 15 maggio. Il delitto fu eseguito il 17 maggio.

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Motivazione: viene presentata come un dato di fatto oggettivo quella che è la linea difensiva di Sofri e degli ambienti a lui vicini, senza chiarire come si tratti di un'interpretazione di parte, inoltre vengono riportate affermazioni sulla testimonianza di Marino prive di qualsiasi necessaria documentazione. Segnalazione di Faramir

La confessione di Marino e l'attendibilità che gli fu attribuita furono oggetto di critiche. Egli cadde in alcune contraddizioni e durante il processo corresse diverse volte la propria testimonianza nelle parti che riguardavano la partecipazione di Sofri e Pietrostefani (alcune delle sue affermazioni sui loro incontri nelle prime testimonianze infatti si rivelarono false), ma vi furono anche dei riscontri alle sue parole nelle intercettazioni telefoniche allegate agli atti del processo. Dopo una lunga vicenda giudiziaria, la magistratura ritenne attendibile la testimonianza di Marino (di fatto la prova principale) e condannò Bompressi, Sofri e Pietrostefani a 22 anni di carcere con sentenza definitiva. Marino fu inizialmente condannato ad una pena ridotta di 11 anni, in quanto collaboratore di giustizia, e questa riduzione di pena nel 1995 gli garantì la prescrizione del reato, come da sentenza della corte d'Assise d'Appello.

termine sezione non neutrale

[modifica] Il processo

Furono celebrati complessivamente sette processi.

  • 1 processo: il 2 maggio 1990 la corte d'assise di Milano condannò a 22 anni di reclusione Sofri, Pietrostefani e Bompressi e a 11 anni Leonardo Marino (pena ridotta rispetto agli altri perché beneficiario di attenuanti come collaboratore di giustizia).
  • 2 processo: il 12 luglio 1991 la corte d'assise d'appello confermò le condanne.
  • 3 processo: il 23 ottobre 1992 la Corte di Cassazione annullò la sentenza con rinvio alla corte d'appello.
  • 4 processo: il 21 dicembre 1993 si concluse il nuovo processo d'appello: tutti assolti.
  • 5 processo: il 27 ottobre 1994 la Cassazione annullò nuovamente la sentenza con rinvio.
  • 6 processo: il 11 novembre 1995 vennero confermate le condanne del primo processo, eccetto per Leonardo Marino, per il quale il reato venne dichiarato prescritto (il tempo passato tra il primo processo, in cui era stato condannato a 11 anni di reclusione, e l'ultimo processo, fece raggiungere i tempi della prescrizione).
  • 7 processo: il 22 gennaio 1997 la Cassazione confermò in via definitiva la condanna di Sofri, Bompressi e Pietrostefani - ad oggi unico dei tre ad essere latitante - a 22 anni di reclusione. Sofri e Bompressi sono stati incarcerati a Pisa.

[modifica] Ulteriori appelli

Furono condotti ulteriori appelli

  • 18 marzo 1998: la corte d'appello di Milano respinse la richiesta di revisione del processo basata su nuove prove.
  • 6 ottobre 1998: la Cassazione annullò l'ordinanza della Corte d'appello di Milano rinviando alla corte d'appello di Brescia la decisione sulla revisione.
  • 1 marzo 1999: la corte d'appello di Brescia respinse la richiesta di revisione del processo basata su nuove prove.
  • 27 maggio 1999: la Cassazione annullò l'ordinanza delle corte d'appello di Brescia rinviando alla Corte d'appello di Venezia la decisione sulla revisione.
  • 24 agosto 1999: la corte d'appello di Venezia accolse la richiesta di revisione.
  • 24 gennaio 2000: la corte d'appello di Venezia respinse la richiesta di revisione e confermò le condanne.
  • 21 luglio 1997: venne presentato ricorso alla Commissione europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo.
  • 4 marzo 2003: alla Corte di Strasburgo si tenne l'udienza sull'accoglibilità del ricorso di Sofri, Pietrostefani e Bompressi.
  • 10 giugno 2003: la Corte di Strasburgo dichiarò irricevibile la richiesta degli imputati.

[modifica] La grazia a Bompressi Pietrostefani e Sofri

Un rilevante movimento innocentista di opinione pubblica, politicamente trasversale anche se principalmente di sinistra, si è nel tempo radunato intorno al caso Sofri. Indipendentemente dalla colpevolezza di Sofri, ormai sanzionata in modo definitivo dalla magistratura, è stata al centro del dibattito politico e pubblico l'opportunità di concedere o meno la grazia a Bompressi e Sofri.

Già nel 1997, appena concluso il tormentato iter giudiziario, fu richiesta la grazia al presidente Oscar Luigi Scalfaro per i Bompressi, Pietrostefani e Sofri che, attraverso una lettera ai presidenti delle camere, la rifiutò con le seguenti motivazioni:

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«Qualsiasi provvedimento di grazia destinato a più persone sulla base di criteri predeterminati, costituirebbe di fatto un indulto improprio, invadendo illecitamente la competenza che la costituzione riserva al parlamento. [...] La grazia, qualora applicata a breve distanza dalla sentenza definitiva di condanna, assumerebbe oggettivamente il significato di una valutazione di merito opposta a quella del magistrato, configurando un ulteriore grado di giudizio che non esiste nell'ordinamento e determinando un evidente pericolo di conflitto di fatto tra poteri. [...] Dunque la via per superare queste dolorose e sofferte vicende della nostra storia può essere trovata, ma certo richiede una visione unitaria di quella realtà, una volontà politica determinata e capace di raccogliere il consenso indispensabile.»

L'ultima frase fu interpretata come un invito a esaminare il tema dell'indulto.[citazione necessaria]

Il 31 maggio 2006 il neoeletto Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano firmò il decreto di concessione della grazia a Ovidio Bompressi, su proposta e parere favorevole del ministro della Giustizia Clemente Mastella.

Il provvedimento di clemenza s'innestava su un'istruttoria iniziata col predecessore di Napolitano, l'ex presidente Carlo Azeglio Ciampi, il quale, già favorevole alla concessione della grazia, era stato bloccato dal Guardasigilli Roberto Castelli. Ciampi promosse allora il giudizio sul conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato presso la Corte Costituzionale. La Consulta, pochi giorni prima della scadenza del mandato di Ciampi, si espresse attribuendo il potere di grazia alla esclusiva discrezione del Presidente della Repubblica, a prescindere da un eventuale parere negativo del Ministro della Giustizia competente.

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