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Battaglia delle Forche Caudine - Wikipedia

Battaglia delle Forche Caudine

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Battaglia delle Forche Caudine
Parte della seconda guerra sannitica
Data: 321 a.C.
Luogo: Forche Caudine
Esito: Resa romana
Schieramenti
Repubblica Romana Sanniti
Comandanti
Tito Veturio Calvinio
Spurio Albino Postumio
Gaio Ponzio Telesino
Effettivi
sconosciuti sconosciuti
Perdite
insignificanti ignote
Guerre sannitiche
Monte GauroSuessolaForche CaudineLautulae – Boviano – Camerino - SentinoAquilonia

La battaglia delle Forche Caudine - almeno stando al resoconto di Tito Livio - non è mai avvenuta.

Livio è stato un interessato cantore della grandezza di Roma e quindi la sua visione storica è leggermente distorta, come d'altra parte accade con la maggior parte degli storici "schierati". Con tutti i limiti posti dal metodo e dal merito, l'autore padovano rimane la principale fonte dalla quale attingere per il periodo delle guerre sannitiche e, pur leggendo tra le righe, dobbiamo constatare che l'episodio più famoso di quei lunghi anni di guerra non è stato, appunto, una battaglia campale come quelle che gli autori classici ci hanno abituato a conoscere.

Indice

[modifica] Situazione

Alla fine della prima guerra sannitica, nel 341 a.C., i sanniti avevano ottenuto la pace dai romani e si erano impegnati a rimanere neutrali nelle incessanti guerre e battaglie che opponevano la bellicosa Repubblica Romana agli altrettanto bellicosi popoli vicini.

Nel 327 a.C. i sanniti, ruppero i trattati appoggiando i Palepolitani, dopo una serie di sfortunate battaglie, nel 322 a.C. furono sconfitti da Roma e dovettero accettare condizioni umilianti: la consegna di Brutulo Papio come istigatore dell'insurrezione, di tutte le sue ricchezze (di Butulo, suicidatosi, fu consegnato il cadavere) e la restituzione dei prigionieri. I sanniti speravano inoltre di poter riottenere lo status di alleati ma Roma, non fidandosi, non concesse l'alleanza.

Nel 321 a.C. la situazione cambiò drasticamente. Al posto di capaci consoli, a Roma furono eletti Tito Veturio Calvino e Spurio Postumio Albino . I sanniti crearono loro comandante Gaio Ponzio Telesino. Questi, a quanto ci narra Livio, era:

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« ...patre longe prudentissumo natum, primum ipsus bellatorem ducemque. »
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« ..figlio di Erennio, celeberrimo per la saggezza: più noto il figlio come condottiero e capo. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 1, Mondadori, Milano, trad.: C. Vitali)

I sanniti avevano inviato i loro ambasciatori, col corpo di Brutulo, per trattare le condizioni di riparazione; ma Roma non aveva accettato di concludere la pace. Ponzio, allora tenne un infiammato discorso per ravvivare gli spiriti del suo popolo. Livio ci riporta il testo del discorso, ovviamente presunto, come era d'uso all'epoca. È però estremamente interessante osservare qualche tratto:

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« ...quorum saevitiam non mors noxiorum, dod deditio examinatorum corporum, non bona sequentia domini deditionem exsatient, nisi hauriendum sanguinem laniandaque viscera nostra prabuerimus. »
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« ...crudeli al punto che non si sentono sazi della morte dei colpevoli, della consegna di loro corpi senza vita né di quella che hanno tenuto dietro ai padroni se non offriamo loro il nostro sangue in bevanda, i nostri visceri da dilaniare. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 1, Mondadori, Milano, trad.: C. Vitali)

Non si può evitare di correre con la mente all'ancor più famoso discorso di Calgaco ai suoi Britanni prima della Battaglia del monte Graupio nella descrizione che ci ha tramandato Tacito nella sua De vita et moribus Iulii Agricolae.

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« Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur; si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit; soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. Auferre, trucidare, rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant. »
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« Rapinatori del mondo, i Romani, dopo aver tutto devastato, non avendo più terre da saccheggiare, vanno a frugare anche il mare; avidi se il nemico è ricco, smaniosi di dominio se è povero, tali da non essere saziati né dall'Oriente né dall'Occidente, sono gli unici che bramano con pari veemenza di possedere tutto e ricchezze e miseria. Rubare, massacrare, rapinare, questo essi, con falso nome, chiamano impero e là dove hanno fatto il deserto, dicono di aver portato la pace. »
(Publio Cornelio Tacito, La vita di Agricola, BUR, Milano, trad.: B. Ceva)

[modifica] La trappola

Nelle more delle trattative di pace, l'esercito romano era ancora stanziato nel Sannio, vicino a Calazia. Gaio Ponzio spostò il suo esercito e lo fece accampare presso Caudio in tutta segretezza. Da lì mandò una decina di soldati, travestiti da pastori, con l'ordine di cercare di farsi catturare dai romani che stavano predando il territorio per raccontare ai nemici che l'esercito sannita stava assediando Luceria in Apulia. Luceria era una città alleata di Roma, e Roma doveva aiutare i buoni e fedeli alleati a difendersi.

Per arrivare a Luceria i consoli avevano due possibilità: una strada più aperta e sicura ma più lunga che costeggiava l'Adriatico e una più breve che doveva attraversare le strettoie di Caudio. Dove siano Caudio e queste strettoie non è ben definito; evidentemente come accadde con Alesia per i Galli, la localizzazione di Caudio è stata rimossa dai romani. Però Livio ci descrive il luogo dove le legioni romane furono intrappolate:

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« saltus duo alti angusti silviosique sunt montibus circa perpetuis inter se iuncti. Iacet inter eos satis patens clausus in medio campus herbidus aquosusque, per quem medium iter est. Sed antequam venias ad eum, intrandae prima angustiae sunt et aut eadem qua te insinuaveris retro via repetenda aut, si ire porgo perras, per alium saltum artiorem impeditoremque evadendum. »
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« due gole profonde, strette, ricoperte di boschi, congiunte l'una all'altra da monti che non offrono passaggi, delimitano una radura abbastanza estesa, a praterie irrigate, nel mezzo della quale si apre la strada; ma per arrivare a quella radura bisogna prima passare attraverso la prima gola; e quando tu l'abbia raggiunta, per uscirne, o bisogna ripercorre lo stesso cammino o, se vuoi continuaree in avanti, superare l'altra gola, più stretta e irta di ostacoli. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 2, Mondadori, Milano, trad.: C. Vitali)

Con ogni probabilità per risparmiare tempo e portare aiuto agli alleati, i consoli romani si incamminarono e fecero incamminare le loro legioni fra quelle strettoie. Però, a quanto pare, non si preoccuparono di mandare qualcuno in avanscoperta. Così i romani scoprirono gli sbarramenti dei sanniti e notarono i nemici sulle alture circostanti quando giunsero alla seconda gola.

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« In eum campum via alia per cava rupem Romani demisso agmine cum ad alias angustias protinunt pergerent, saepta deiectu arborum saxorumque ingentium obiacente mole invenere. »
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« I romani, discesi con tutto l'esercito nella radura per una strada ricavata nelle rocce, quando vollero attaccare senza indugi la seconda gola, la trovarono sbarrata da tronchi d'albero e da ammassi di poderosi macigni. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 2, Mondadori, Milano, trad.: C. Vitali)

Ovviamente le legioni romane cercarono di ritornare per la via da cui erano giunte ma trovarono la prima gola chiusa con uno sbarramento uguale a quello dell'altra. Questo è uno dei tanti momenti in cui Livio smette di essere "storico" e diventa "narratore". Vale la pena di lasciare al suo stilo:

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« Sistunt inde gradum sine ullius imperio stuporque omnium animos ac velut torpor quidam insolitus membra tenet, intuentesque alii alios, cum alterum quisque compotem magis mentis ac consilii ducerent, diu immobiles silent. »
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« Senza che ne venga dato l'ordine si arrestano: gli animi sono presi da sgomento, le membra irrigidite da una specie di torpore; si guardano gli uni gli altri come se ciascuno cercasse nel viso del compagno un'idea o un progetto di cui si sente privo: immobili in lungo silenzio. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 2, Mondadori, Milano, trad.: C. Vitali)

Poco scientifico, secondo i canoni moderni, ma Livio ci fa quasi vedere i soldati e gli ufficiali fermi, silenziosi, che gettano attorno sguardi smarriti.

L'abitudine alla disciplina dell'esercito romano cominciò a farsi valere. Furono alzate le tende dei consoli, si iniziò a costruire il regolamentare vallo vicino all'acqua, a scavare regolamentare il terrapieno. Anche se i nemici irridevano i romani dall'alto. Anche se loro stessi si rendevano conto della disperata situazione.

Scese la notte e passò fra conciliaboli e piani di evasione sempre ritenuti di impossibile attuazione. Anche i sanniti, però, erano indecisi su come comportarsi. Avevano preso la classica tigre per la coda. Bisognava decidere cosa farne. Il comandante dei sanniti si rivolse al babbo.

[modifica] Erennio

Caio Erennio Ponzio, per la sua età e per l'indebolimento del corpo, si era ritirato non solo dall'uso delle armi ma anche dalla politica. Ma conservava una mente lucida e in pieno vigore. Il figlio mandò un messaggero per chiedere al padre cosa fare delle catturate legioni. L'anziano sannita come risposta consigliò di lasciar andare i romani senza torcere loro un capello.

La risposta non fu gradita dall'esercito sannita che rimandò il messaggero per avere qualche altra indicazione. La seconda risposta di Erennio fu di uccidere tutti i romani, dal primo all'ultimo.

Questo stile ambiguo, quasi da oracolo, stupì Gaio Ponzio che temendo una caduta mentale dell'anziano genitore lo fece portare in Consiglio con un carro. Giunto che fu, Erennio si limitò a spiegare il senso delle sue risposte: se i soldati fossero stati lasciati andare si sarebbe potuto contare sulla gratitudine di Roma; se l'esercito romano fosse stato distrutto Roma non avrebbe potuto riarmarsi in breve tempo e i sanniti avrebbero potuto vincerla definitivamente. Non esisteva una terza soluzione. Dice Livio: "tertium nullum consilium esse". E pone in bocca all'anziano nobile sannita parole "profetiche" che tanto piacevano nell'ambiente di Augusto volto al tentativo di rimettere i romani sul solco della tradizione e delle vecchie glorie:

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«...servate modo quod ignominia inritaveritis: ea est Romana gens, quae victa quiescere nesciat. Vivet semper in pectoribus illorum quidquid istuc praesens necessitas unisserit necque eos ante multiplices poenas expetitas a vobis quiescere sinet »
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« ...Conservate ora coloro che avete inaspriti col disonore: il popolo romano non è un popolo che si rassegni ad essere vinto; rimarrà sempre viva in lui l'onta che le condizioni attuali gli hanno fatto subire, e non si darà pace se non dopo averne fatto pagare il fio ad usura »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 3, Mondadori, Milano, trad.: C. Vitali)

Le proposte di Erennio non furono accettate ed egli fu riportato a casa sua.

[modifica] La resa

I consoli romani, atteso che non avevano altra via d'uscita, mandarono dei legati per chiedere una pace equa o che i sanniti si schierassero per la battaglia, ma ovviamente Gaio Ponzio non accettò e pose le sue condizioni:

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« inermes cum singulis vestimentis sub iugum missurum; alias condiciones pacis aequas victis ac victoribus fore: si agro Samnitium decederetur, coloniae abducerentur, suis inde legibus Romanum ac Samnitem aeque foedere victurum »
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« li avrebbero fatti passare sotto il giogo, disarmati, vestiti della sola tunica; le altre condizioni di pace accettabili ai vinti e ai vincitori: il ritiro dell'esercito dal territorio dei sanniti e quello delle colonie ivi mandate; in seguito romani e sanniti sarebbero vissuti ciascuno con le proprie leggi in giusta alleanza. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 4, Mondadori, Milano, trad.: C. Vitali)

Lucio Lentulo, figlio del difensore del Campidoglio assalito da Brenno e i suoi Galli e legato di grande valore bellico, avendo già dimostrato di non avere paura, poteva parlare apertamente di resa. Lo fece. In una sorta di assemblea informale si alzò per consigliare la resa razionalizzandola come difesa della patria che altrimenti, perso l'esercito, sarebbe rimasta senza difesa. E, contrariamente a quanto era accaduto ai tempi del padre, non c'era un esercito romano sfuggito a Veio e pronto a ritornare alla riscossa dietro a Furio Camillo.

I consoli si recarono da Ponzio per discutere la resa. Ponzio voleva gettare le basi di un vero e proprio trattato ma i consoli replicarono che non era possibile; la cosa doveva essere decisa dal popolo romano e confermata dai Feziali con gli opprtuni riti. Fu quindi fissata la data della consegna delle armi e degli ostaggi. E del rilascio dell'inerme esercito romano.

Alla fine giunse il momento dell'ignominia:

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« Iam primum cum singulis vestimentis inermes extra vallum exire iussi; et primi traditi obsides atque in custodiam abducti: tum a consulibus abire lictores iussi paludamentaque detracta [...]Primi consules propri seminudi sub iugum missi; tum ut quisque gradu proximus erat, ita ignominiae obiectus; tum deinceps singuale legiones: circumstabant armati hostes, exprobrantes eludentesque, gladii etiom plerisque intentati, et vulnerati quidam necatique, si vultus eorum indignitate rerum acrior victorem offendisset. »
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« Furono fatti uscire dal terrapieno inermi, vestiti della sola tunica: consegnati in primo luogo e condotti via sotto custodia gli mostaggi. Si comandò poi ai littori di allontanarsi dai consoli; i consoli stessi furono spogliati del mantello del comando [...] Furono fatti passare sotto il giogo innanzi a tutti i consoli, seminudi; poi subirono la stessa sorte ignominiosa tutti quelli che rivestivano un grado; infine le singole legioni. I nemici li circondavano, armati; li ricoprivano di insulti e di scherni; e anche drizzavano contro molti le spade; alquanti vennero feriti ed uccisi sol che il loro atteggiamento troppo inasprito da quegli oltraggi sembrasse offensivo al vincitore. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 5 - 6, Mondadori, Milano, trad.: C. Vitali)

[modifica] Reazioni

L'esercito romano si diresse verso l'alleata Capua senza osare entrare in città. I capuani uscirono per portare soccorso in cibo, vestiti, armi e perfino i simboli del potere per i consoli. Ma i romani sembravano abulici e concentrati nel dolore e nella vergogna. I sanniti, contrariamente ai Galli, sembravano non avere solo battuto i romani; ma averne distrutto il valore e l'orgoglio.

A Roma, alla notizia del disastro, si abbandonò l'idea di una nuova leva e si ebbero spontanee manifestazioni di lutto: furono chiuse botteghe e sospese le attività del Foro. I senatori tolsero il laticlavio e gli anelli d'oro. Addirittura ci furono proposte di non accogliere gli sconfitti in città. Questo fortunatamente non accadde ma i soldati, gli ufficiali e i consoli si chiusero in casa . Tanto che il Senato dovette nominare un dittatore per l'esercizio delle attività politiche. Ma il popolo non accettò le magistrature e si dovettero eleggere due interré: Quinto Fabio Massimo e poi Marco Valerio Corvo. Questi proclamò consoli Quinto Publilio Filone e Lucio Papirio Cursore, i migliori comandanti militari disponibili.

[modifica] Voci correlate

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