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Pietro Acciarito - Wikipedia

Pietro Acciarito

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Pietro Umberto Acciarito (Artena, 1871 - Montelupo Fiorentino, 1943), fabbro, fu un anarchico italiano, noto per il suo tentativo di accoltellare, presso Roma, il re d'Italia, Umberto I. Arrestato e processato fu condannato all'ergastolo.

Indice

[modifica] Infanzia e formazione

Pietro Acciarito nacque da una famiglia di umili condizioni. Il padre, Camillo, lavorava come portiere, ed andava orgoglioso di condividere con Umberto I la data di nascita e di aver conferito al proprio figlio, quale secondo nome, quello del sovrano. Il giovane Pietro non ebbe l'opportunità di perseguire gli studi, ma divenuto fabbro arrivò a condurre una propria piccola officina.

Sebbene non iscritto a nessun gruppo politico, Acciarito iniziò a divenire noto per le sue idee radicali, derivanti da un manifesto sentimento ostile sviluppato nei confronti delle classi dominanti, idee delle quali non faceva mistero e che anzi proclamava volentieri e a gran voce. Al di là delle sue idee politiche, per altro all'epoca molto diffuse tra le classi popolari, secondo alcuni resoconti, il fabbro estremista presentava sintomi compatibili con quella che poi sarà definita come sindrome depressiva. Non desta pertanto stupore l'esordio del resoconto, poi ricostruito, delle sue ultime giornate da uomo libero.

[modifica] L'attentato

Il 20 aprile 1897 Acciarito chiuse la propria officina di fabbro e si recò dal padre, salutandolo ed informandolo che sarebbe stata l'ultima volta che si sarebbero visti. Il padre gli chiese allora se stesse sul punto di emigrare o di suicidarsi. Il figlio rispose che lo avrebbe scoperto presto e che si sarebbe recato all'ippodromo.

Consapevole delle idee del figlio, e del fatto che il 22 aprile Umberto I avrebbe presenziato alle corse ippiche sull'Appia, organizzate in occasione del 29esimo anniversario del suo matrimonio con la regina Margherita, il padre si recò presso la Polizia e avvisò di stare pronti a fronteggiare un attentato al re in quella occasione.

Ciò nonostante, Pietro Acciarito, mescolatosi il 22 tra la folla che salutava l'arrivo del sovrano presso l'ippodromo, riuscì ad avvicinarsi armato di coltello alla vettura reale. Re Umberto, notata tempestivamente l'arma impugnata, fu in grado di schivare con facilità il tentativo dell'anarchico di sferrargli un colpo e rimase illeso. Essendo appena riuscito a graffiare la carrozza che recava il sovrano, Acciarito si allontanò con calma e, nella confusione seguita al suo gesto, fu fermato solo dopo ch'ebbe percorso circa 50 metri.

Il re, non volendo apparire scosso dall'evento, assistette alle corse come da programma.

[modifica] Processo e condanna

Nell'immediatezza dell'arresto fu chiesta ad Acciarito la ragione del suo gesto. Il fabbro rispose polemicamente che re Umberto sembrava disposto a spendere 24mila lire (all'epoca una somma molto considerevole, corrispondente al montepremi della giornata di corse) per un cavallo, ma nulla per i poveri.

Più tardi Acciarito fu sottoposto dalla Polizia a duri interrogatori e a torture nella convinzione di poter così costringerlo a svelare un supposto completto e i nomi delle altre persone in esso coinvolte. Parallelamente furono condotte indagini tra i conoscenti del fabbro di Artena, e fu arrestato un suo amico, tale Romeo Frezzi, semplicemente perché nella sua casa fu trovata una fotografia di Acciarito.

L'attentato fallito fu inoltre impiegato come pretesto per arresti arbitrari di esponenti socialisti, anarchici e repubblicani.

Frezzi fu a propria volta torturato e morì al terzo giorno d'interrogatorio. La prima versione della sua morte volle che Frezzi si fosse suicidato battendo ripetutamente il capo contro il muro della propria cella. Tale versione fu tuttavia rapidamente sottoposta a verifica e risultò poco credibile. Venne pertanto condotta una nuova indagine, che si concluse individuando la causa della morte in un ictus. Anche questa versione dei fatti, però, fu oggetto di dispute e le autorità furono costrette ad intraprendere una terza indagine, la quale concluse che Frezzi si era suicidato lanciandosi da un'altezza di sei metri.

Le vicende legate alla morte di Frezzi suscitarono clamorose proteste popolari di massa contro la brutalità poliziesca. Per conseguenza, i funzionari responsabili della custodia in carcere e degli interrogatori della vittima furono presto trasferiti ad altro incarico.

Più tardi emerse anche che la Polizia aveva creato una falsa lettera, suppostamente scritta dalla fidanzata di Acciarito, nella quale la ragazza lo informava di essere incinta. Sulla base di questa falsa suggestione, la Polizia tentò di strappare al mancato attentatore di re Umberto i nomi dei suoi supposti complici, promettendogli, in cambio, di liberarlo presto e consentirgli di potersi ricongiungere alla sua donna. Soggiacendo a tale falsa lusinga, Acciarito fece i nomi di cinque persone che furono immediatamente tratte in arresto.

Durante lo svolgimento del processo, tuttavia, i cinque supposti cospiratori furono riconosciuti innocenti, mentre emerse che il loro arresto era dovuto solo ad una confessione estorta con inganno e violenza. Acciarito fu riconosciuto colpevole di tentato regicidio e condannato all'ergastolo. Ascoltata la sentenza egli gridò:

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«Oggi a me, domani al governo borghese. Viva l'anarchia! Viva la rivoluzione sociale!»

Tenuto in rigoroso isolamento, come già accaduto nel caso del precedente autore di un fallito attentato a re Umberto, Giovanni Passannante, Acciarito scivolò nella follia. Riconosciuto malato di mente, fu trasferito presso lo stesso manicomio criminale ove aveva finito i suoi giorni il suo precursore. Alla sua morte, Acciarito fu sottoposto ad autopsia da parte degli stessi eugenetisti, della scuola lombrosiana che avevano esaminato il corpo di Passannante, i quali conclusero che la forma del cranio dell'ex fabbro rivelava la sua "predisposizione all'assassinio".

[modifica] Bibliografia

  • Giuseppe Galzerano Giovanni Passannante. La vita, l’attentato, il processo, la condanna a morte, la grazia ‘regale’ e gli anni di galera del cuoco lucano che nel 1878 ruppe l’incantesimo monarchico, Galzerano Editore, Casalvelino Scalo, 2004.

[modifica] Voci correlate

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