Il lupo della steppa
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«Questo libro contiene le memorie lasciate da quell'uomo che, con un'espressione usata sovente da lui stesso, chiamavamo il "lupo della steppa".»
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(Hermann Hesse)
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Il lupo della steppa (Der Steppenwolf, 1928) è un romanzo dello scrittore tedesco-svizzero Herman Hesse. Combina elementi autobiografici e fantastici, e riflette il momento di profonda crisi spirituale vissuto dall'autore negli anni '20. Steppenwolf rappresenta al contempo un atto d'accusa al mondo borghese, visto da Hesse come una struttura ipocrita, chiusa, e limitante la libertà dello spirito.
[modifica] Trama
Il protagonista Harry Haller è un intellettuale sulla cinquantina che, in un manoscritto abbandonato prima della sua misteriosa scomparsa, descrive il disagio della sua "duplice" natura: l'umanità, cioè l'amore per l'arte e il divino, la nobiltà d'animo e di pensiero, e la bestialità (il "lupo"), alla ricerca dei piaceri selvaggi.
Questo suo carattere, ombroso e irrequieto gli rende difficile se non impossibile socializzare e lo porta ad odiare e disprezzare la vanità e la superficialità del mondo borghese. L'isolamento sociale e l'incapacità di godersi la vita lo avvicinano sempre più al suicidio, ma proprio nel momento più drammatico conosce, in una trattoria dei sobborghi, Erminia, donna seducente che lo conduce, poco a poco, ad una conversione ai piaceri della vita moderna facendogli recuperare il tempo perduto.
Il finale del racconto, in un "teatro magico" vede Haller, ormai convinto di aver recuperato la capacità di amare, che uccide con una pugnalata al cuore la persona amata. Esegue così l'ultimo desiderio della sua amata Erminia ma, nel "teatro magico", il delitto di cui Haller si è macchiato gli costa la condanna alla vita eterna, con lo scherno dei grandi del passato che sedendogli accanto lo invitano a comprendere una volta per tutte l'umorismo della vita per imparare a ridere senza dar peso eccessivo ai sentimenti.
Nel romanzo si sviluppa uno dei temi preferiti di Hesse, cioè la ricerca dell'interiorità attraverso la contemplazione dei tanti, spesso contraddittori aspetti dell'io, rappresentata sia dalla preoccupazione di Haller per l'incoerenza del proprio animo, sia dalla metafora finale del "teatrino magico".